Blog — 14 Novembre 2022

Questa che segue è la prefazione scritta da Giuseppe Panella per un’autoantologia che progettavo in quegli anni (credo il 2007) ma che non ho mai più realizzato.
Parte del testo è stato poi utilizzato da lui per considerazioni sullo stato dell’arte, pubblicate altrove.
Sono felice, avendola ritrovata per caso perché troppo protetta, di riproporla qui sul mio sito nella forma integrale. Grazie ancora Giuseppe.

 

INTO THE CUT.

Qualche considerazione sul percorso poetico di Nadia Cavalera.

 

«Dalle ambizioni dell’artista di essre presente anche esplicitamente nel presente, nella contemporaneità, si possono capire anche le frustrazioni che egli riceve, visto che non può farlo  compiutamente, e si può capire quel rifiuto della specificità eccessiva del suo compito. Onde il morso e il rimorso del presente, una spina che tutti abbiamo per giustificarci in questo mondo, dichiarandoci ed entrando nel vivo del tempo in cui siamo. Ma è chiaro che la contemporaneità non è data da questo allineamento e tanto meno dai contenuti, quanto, direi, dal linguaggio e dallo stile»

(Mario Luzi, “Moderni ? Contemporanei ?“)

 

1.

Immergendosi in profondità nella intrapresa poetica di Nadia Cavalera non ci si può nascondere di trovarsi di fronte ad una coerenza espressiva e a una continuità di percorso storico-teorico così evidenti da non lasciare vie di fuga a chi volesse evitare (per pigrizia o per mancanza di tempo) di ripercorrerne (sia pure con la necessaria brevità di chi vuol rimanere al livello della narrazione storica) la strada e la prospettive di ricerca poetica e umana.

L’imprevedibilità della sua scrittura coglie di sorpresa anche il più calibrato schema di copertura psicologica: la poesia, in questo caso, si prende la propria rivincita attraverso lo scatto improvviso del desiderio nascosto.

Nel suo caso, il lascito della lingua scritta si sposa al chiaroscuro della mente in tensione per produrre poesia e per riverberare sulla pagina le potenzialità del parlato..

Allo stesso modo, l’eredità delle neo-avanguardie storiche (italiane o meno, non importa – ma per la poetessa in questione  il surrealismo francese è ancora il campo di gioco più significativo) gioca la propria partita nella scrittura materialisticamente declinata di Nadia Cavalera e la costringe ad una formalizzazione tanto intensa quanto schiacciata sul versante di una personalità forte e denotata quale è quella che si  intuisce nella sua opera scritta.

Neo-avanguardia e passione per il presente sono, allora, due  tra i possibili termini prioritari per l’interpretazione della sua scrittura apparentemente legata soltanto al libero gioco del linguaggio.

Il progetto della Cavalera è, però, più complesso. Et pour cause.

In Vitanovissima (che è già del 1992) si legge ardentemente e con un po’ di sfotto’ artistico-etico:

 

«7

tes’è la lamma kriss e io volteggio alla più peggio in ferro greggio saltellanfa

nando sui tacchi spilli dei capelli con I’anchilosate mani reggo bucat’ombrelli

con la bocca lancio in sponsor gl’anelli nei cestelli pirelli (: venite venite son

tanto belli!) mentre con ambo i pie’ titilvellico il monte paraninfeo d’una muta

grigi’anatra in volo forfait e sbatto in gratto la natica d’una nuvola in desabillée

con le brache ai garre’

8

oggi meglio dunque me vedi miri et odi (: altrove son le rose dei priori bollo-

ri a fiori) (: dopo lo squallore del vicolo di aberdeen il ragazzo si rallegrò del

titolo e della sua abbazia e volle acquistare il carattere dei suoi antenati in segno

di riconoscenza per le loro terre)

9

ah lulù rispetto a quanto prima non ci credere (: si fa per la rima) nzartika pu-

re con le tue sperticate gambe strambe rott’a stozze struncunisciata in bozze e

binche cozze lasci’anz’un folco folto solco anche folclo ruspa vispa la via

smottala mulcila e fulcila e frullane nello shaker piper con catrame e bignè la

polvere porteur poi fruttata ruttala negl’occhi fissi dei robot a nastri già

confezionati marche e marchette brevettate pluriassaggiate prima d’essere al

pubblico vendute (: vince sempr’ovunque dunque il silenzio dei muti come dei

fottuti polluti cornuti) {..[..(

lo stoicismo contemporaneo per origine

all’epicureismo ebbe una storia più lunga ed una minore costanza dottrinale)..]..}

10

sgattaiolai ancora notte dalla botte culla del primiero saluto in scorbuto e

starnuto (: ororro la sfida dell’alba calva senza malva meglio macerarsi

nell’alga marchi senza tanti carchi) I’intentio era provare ma non risicare (:

puntata max tenuta pex) e in tax uncinai tra i lai il metrò per una coincidentia

di partenza pel rinnovo di vicenza in bianca dementia (: benché il piacere non

sia il bene, cionondimeno è ingiusto ch’il virtuos’anche moroso debba soffrire

e manfrire)»

 

In questo testo centrale per la sua produzione[1], la Cavalera prova a inseguire il significante puro attraverso una vertiginosa corsa tra dialetto, parole colte ed espressioni gergali (smottala mulcila e fulcila e frullane nello shaker piper con catrame e bignè la polvere porteur poi fruttata ruttala negl’occhi fissi dei robot a nastri già confezionati) dove le espressioni  di derivazione colta (ma qui trasformate in neologismi) come “mulcila” o “fulcila” si connettono senza soluzione di continuità con lo shaker e il piper e il  porteur e i robot usati come espressioni linguistiche “pure”.

E’ evidente il (mai s-confessato) rapporto con la scrittura del primo Sanguineti (da Laborintus ai TAT di Wirrwarr) ma è altrettanto evidente il tentativo di liberarsene attraverso un uso massiccio e spesso provocatorio di una possibile prosa ritmica basata non più soltanto sulle assonanze ma anche sulle contraddizioni fonico-tonali:

 

« 12

andar diando sf ma per alte mete quaggiù lulù anche tu mi sprechi in prieghi e

di questi flebili striscianti echi (: l’etica aristotelica non mi convince va bene

per chi ha deboli passioni ma nulla dice a chi è posseduta da un dio da un

demonio o ai grandi disperati)

13

quel monaco eretico forse italico di certo solo per errore fu elvetico non si può

ammettere neppure in lettere tale degradazione è solo una questione d’amor di

patria pria in ribasso ora in rialzo ovunque di sbalzo e così anch’io mi scalzo

nella congrega dei kamel trophyani (: che soggetti strani: nel disastro sociale

piovono eremiti avventurieri giusto nostrani)

14

mercato rionale informale follicolare (: palato parziale) dalla finestra laterale di

casa mia (: restia ria mania) lungo fungo disteso mungo oculato sulla via

spruzzato di memoria sonorizzato limite gelato reclamizzato ciarliero forno

giornaliero attorno in azione l’esposizione rispunta assunta punta mai smunta

la canzone mammone l’ambulante con volante rampante come tante maneggia

mercanzia più meno greggia passeggia occheggia (: scheggia della mia reggia)

guida novella mida invita alla vita trita la clientela bela gela nella tela della vela

cela pela di mela financo querela chiede ammende fende mente dalla sua mano

pende prende spende il lavoro rende vende bende delle tende di chi sotto si

stende sente bisogno vitale sogno essenziale agogno mandibolare riproduzione

materiale agghindata a breve data truccata (: una rata) palizzata fatata ad una

mazzata setizzata (: mia tata) purga malata visceralmente ingoiata massamente

sabotata in tornata (: ballata di sola andata)»

 

si legge poi di seguito, infatti.

Alla lezione neosperimentale di vitanovissima, seguiranno opere come Americanata[2] (attribuita a una non meglio identificata Marie Donna Lancaster) ed Ecce femina[3], opera, invece, collettiva (dagli epigrammi latini di una supposta Annia Aurelia Galeria Lumilla Augusta conseguono traduzioni dal latino in interlinea di Nadia Cavalera che si fa aiutare per il commento da una pedantesca, retrograda e assai retorica signora dal nome di Kristina Donnicola).

Due esperienze di scrittura basate su un taglio assai simile di provocazione dove “il testo è una proposta, la traduzione un’interpretazione” (come si legge nel colophon di Americanata).

In verità, anche il testo (soprattutto nel caso di Ecce femina) è una sorta molto particolare di proposta in quanto espone una forma di contaminazione linguistica basata sulla rivelazione di mondi di parole appartenenti a tempi diversi e lontanissimi, eppure com-presenti nel testo stesso.

Così la presenza ricorrente della frase were motivated by religious fervor che compare in qusi tutti i frammenti poetici di Americanata (e tradotta come “erano spinti da fervore religioso”) è una sorta di coda beffarda che viene aggiunta dappertutto (come accadeva all’”ampollina” applicata negli Inferi ai versi di Eschilo e di Euripide nel corso delle Rane di Aristofane per saggiarne la resa e la validità poetica).

E così nel testo di Ecce femina, la presenza dei due eteronimi fa saldare ogni gerarchia linguistica in corso di scrittura:

 

«Il fatto che Annia Aurelia Galeria Lumilla Augusta sia Nadia Cavalera, che ha fabbricato un falso e ha pure, alla maniera di Pessoa, preso il nome della Donnicola, produce in Ecce femina una straordinaria quota aggiuntiva di problematicità e di demistificazione. Salta, infatti, qualsiasi gerarchia e si fa entropica l’interferenza fra i testi; l’opera appare un tutto, ma discontinuo e frantumato e polimorfo; l’interruzione prende a rovesciare sulla scrittura straniamento a dosi massicce e d’urto. La citazione la vince, e non solo perché i prelievi, senza essere recuperati ad un disegno fortemente coeso, popolano e intasano i lacerti latini o le note di commento: la stessa traduzione, nella sua dislocazione tipografica da bignamino (nel suo concorso in una simulazione straniante di una poesia visiva), distrae ed enuclea particole materiali dal contesto in sé frammentario e, infine, per dierla in breve, cita. La pratica citatoria rilancia il plurilinguismo attraverso la contraddizione fra l’unità dell’opera e la differenza dei discorsi, funzionalmente e linguisticamente distinti, in cui essa si articola; e siamo ben al di là di una intenzione meramente ludica, fuori della (e contro la) ideologia postmoderna, che interpreta e usa il citazionismo come conciliante e neutrale allineamento. Si pensi solo alla ginnastica dell’occhio e della mente che Ecce femina induce, e alle scelte a cui chiama perentoriamente, pagina, dopo pagina, il lettore. Come leggere?»[4].

 

A riprova di quanto Carlino scrive acutamente sopra, basterà andare a vedere cosa succede a p. 24, al testo contrassegnato come XII:

 

«fortunam… (turpi fraude sustinear tibi)

La fortuna… con turpe frode sostenga te),

 

accipere nolo, et spes

non voglio accettare, e la speranza

 

agricolae paucis vero electis

dell’agricoltore in verità è per pochi eletti

 

sed magis amica veritas in hoc signo

ma più amica in questo segno la verità

 

(in fabula fides pro domo suo)

(nella favola la fede per la sua casa) »

 

E sotto, il commento in calce di Kristina Donnicola:

 

«Non si smarrisce di tanta vastità e tutto coglie l’aspetto di questo meraviglioso tripudio in unn universo linguistico dove tersi fortemente speculative affiancano l’articolazione logica della riflessione e del suo farsi grammatica. Dove la persuasione matura nella verifica di un discorso consequienziale sul livello semantico e su quello ritmo-fonico».

 

Le spiegazioni in calce date da Kristina non hanno nulla a che vedere con il testo latino della pseudo-Annia Aurelia, eppure i due testi si combinano nel ricreare l’atmosfera del falso d’epoca: il commento (un po’ folle, retorico e onnicomprendente) riprende la reboante prosopea del critico d’antan a confronto con un classico e ne mima le contorsioni letterarie e pseudo-scientifiche mentre il testo latino è fatto di frammenti coordinati di testi e frasi classiche d’eccezione (e ampiamente riconoscibili) e la traduzione è letterale e, quindi, fasulla – in realtà non dà senso compiuto così com’è compitata (né potrebbe, comunque, darne).

Ne viene fuori un pastiche di rara grazia (e follia) che mira più al concerrto di voci e di suoni che al senso prodotto dall’incontro delle parole.

Lo stesso accade in Nottilabio[5], singolare romanzo-affabulazione-delirio di innesti di parole in un collage di sensazioni e di citazioni. Di esso Giorgio Celli scrive nella sua Nota:

 

«Quando la Cavalera afferma qualcosa, la spiazza immediatamente dopo, e se ne va sempre per la tangente della sua ultima affermazione, coltivando una pervicace vocazione per la fuga, e per una trasgressione operata, diciamo così, su sé medesima. Dicevo della tecnica del collage, ma ancor più, forse, ci troviamo di fronte ad una trasposizione in prosa del far poesia – la Cavalera è soprattutto una poetessa –, perché la metafora, che è la struttura portante dei versi, è pur sempre un’espressione dell’eterogeneo, di un eterogeneo particolare che trova la sua convalida, volta per volta, nella scopeta di quanto il casso possa contribuire all’emergenza estetica».

 

Un esempio?

 

A p. 13 prima si parla con interesse di Violeta Chamorro e della rivoluzione sandinista in Nicaragua e dei suoi problemi con l’imperialismo americano, poi distrattamente di Berlino Ovest che vuole tornare ad essere una capitale di livello mondiale e poi:

 

«[…] quando prima ero a tavola lei non so bene come  né perché mi aveva sorriso si vedeva solo la lingua avvoltolata  a mo’ di sberleffo ricordava il Perù uno sfascio di lacrime e sangue poi siamo in un campo  corre io la seguo la inseguo siamo vicini gelidamente vicini senza brividi ci baciamo appesi al ramo mentre contro l’involuzione inglese nasce la charta 88 con Calvino e Marquez. Quando sembrava  che il bacio cominciasse a ingranare ci stacchiamo e a questo punto lei sembra avvertire tutto il cattivo fulgore del mio alito il ritorno all’antico è un mito ricorrente nel Novecento e la sera prima avevo mangiato proprio dell’aglio e mi dico a mente potevi ingurgitsre almeno delle caramelle prioma per evitare la disistima che serve per la prima e il check up sociale dà un grande divario».

 

Che cos’è? La parodia di un romance? Forse. Un sogno, un delirio, un inseguimento di temi e parole e situazioni  le più varie, dal sociale al personale? Certo. Un’insieme di rapporti e prospettive di visione che vanno dal realismo più outré (l’alito cattivo che fa fallire il bacio) all’inseguimento onirico ed erotico (“ci baciamo appesi al ramo”).

Nadia Cavalera chiama questo suo modo di porsi di fronte alla scrittura e alla realtà  “superrealismo allegorico”[6] (e tale continuerà a chiamarlo anche in seguito).

 

2.

Tale atteggiamento mentale (e poetico) sarà presente fin da subito in Brogliasso (Modena, Gheminga, 1996), un incredibile tentativo circolare (ancora!) di poesia con un testo stampato dalle due parti in modo che si incontrino nel momento in cui il lettore ha scelto di cominciare a leggere da una parte o dall’altra.

Si tratta, dunque, di un libro che non ha un prima o un dopo, un davanti o un dietro, un inizio e una fine – un libro non-libro, in realtà, un “ircocervo” (avrebbe forse scritto Benedetto Croce !).

In esso (come già però in Amsirutuf Enimma) insieme alle parole ci sono i pentagrammi e la musica in una complessa partitura (è proprio il caso di dirlo…) in cui i suoni si inseguono e si scontrano fino a ricomporsi in una possibile melodia di parole.

 

« epitaffio. Alto là imberbe  sull’erbe di questa lapide di rapide sapide: qui giace tranche e trench verace lulù (: in vita spentita»

 

è solo il primo dei moltissimi esempi che si potrebbero fare senza dover utilizzare complessi programmi di grafica per evidenziare l’ormai raggiunto livello di raffinatezza linguistico-fonica.

Tale raffinatezza, peraltro, èevidenziata ancor di più dalla scrittura dei succosi  limerick che compongono Salentudine[7], omaggio alla lingua materna di Galatone (Lecce).

Il testo vuole essere apprezzato per le caratteristiche di fonologia linguistica storica che ne sono parte rilevante e presenta la riproduzione esatta della pronuncia dei termini usati.

 

«C’era un prete di Lucugnano / che faceva tricche e tracche con un paesano / ora era focaccia ora kartiddata (= dolce natalizio) / finiva sempre a tavola con una serenata, / quel prete Galeazzo di Lucugnano»[8].

 

La traduzione italiana, in realtà, non rende affatto la musicalità giocosa (e ricavata da quella della lingua “infantile” dell’autrice) delle rime e del nonsense.

La capacità di far rivivere i momenti felici trascorsi in compagnia della madre che recitava i suoi limerick alla figlia si ritrova nella campitura spesso estrema e volontariamente al limite della sua scrittura. E’ un testo di cui è difficile rendere conto senza una più precisa analisi linguistica su base storica – è probabile che in essa si possano ritrovare le diverse strade che il dialetto galatonese ha preso nel corso del tempo e nella sua evoluzione ritmico-fonica anche nei confronti dell’italiano.

In Superrealisticallegoricamente (Roma, Fermenti, 2005 – ultima fatica finora della poetessa), il tentativo (anzi, la tentazione) della sintesi è assai forte (come è testimoniato anche dalla lunga nota su “La scrittura tra realismo e allegoria” che chiude il volume oblungo che la ospita).

 

«La mia voce. La mia voce un tempo flautata fatata fata di sogni heidi picchiettata con questo morso in bocca d’un mondo allocco è bacalà fisso che stocca ogni corso ricorso torsolo senza rimborso ed io muta m’abbiocco come rotto balocco» (si legge a p. 24).

 

E’ ancora la voce a decidere della verità della parola; è la lingua che scandisce i tempi di una poesia che vuole essere passaggio continua (quasi una fuga incessante) tra allegoria e surrealtà (non tanto nel senso proposto da Breton nel Primo Manifesto del Surrealismo del 1924 come accadeva in precedenza quanto in quello, ben più attuale e rilevato, di una necessaria integrazione tra reale e rete telematica, tra mondo quotidiano e Internet).

 

«Superrealisticallegoricamente, nel titolo lunghissimo, costituito da un avverbio chilometrico che ricorda la famosa formula magica di Mary Poppins, enuncia in modo esplicito la sua tendenza di scrittura. Come scrive Nadia Cavalera? Risposta: superrealisticallegoricamente. E però: cosa c’è dentro a quella parola-valigia? L’avverbio e la modalità sono tutti da spiegare, in quanto indicatori di una ricerca letteraria; e di una tendenza addirittura “doppia”, che tiene insieme il “superrealismo” (parente e riaffioramento dell’avanguardia storica surrealista, con la sua carica libertaria-anarchica) e l’“allegoria” (pervenutaci via Benjamin come poetica dello scarto e dell’interferenza, del rimando verso l’esterno e della significazione complessa). Nadia Cavalera provvede da par suo in questo libro (pubblicato nella prestigiosa collana “alternativa” di Mario Lunetta, Controsensi) ad articolare la sua endiadi teorica e programmatica – già avanzata in altre sedi – con l’autorevolezza e la vulcanicità di una poliedrica produzione testuale, aggiungendo in più una parte aforistica e una appendice argomentativa. Vorrei dire, innanzitutto, che si tratta di una operazione su diversi fronti e su più livelli: la prima cosa che salta agli occhi è la tessitura “sonora”, nella quale viene inverata la poetica dell’oggettività della lingua, che può vantare il proprio ascendente nell’ambito del surrealismo (“Dopo di lei, carissima lingua”, diceva Breton»

 

scrive Francesco Muzzioli in una bella recensione a questo lavoro.

 

In questa prospettiva di scrittura, Nadia Cavalera accentua la dimensione chiaroscurale della sua dizione poetica: sogno e realtà, luce e ombra, diritto e rovescio si inseguono e spesso si scavalcano per tentare la resa sulla pagina della schizofrenia della contemporaneità. Una schizofrenia che non è solo degli uomini e dei tempi ma lo è anche della poesia stessa.

 

«Pratica nello specifico di uno sperimentalismo ad ampio raggio, non gratuito, ma di tendenza. Uno sperimentalismo che sia momento di rottura, frattura vivificante e che, col fine precipuo di rinnovare il rapporto con le cose, coinvolga e stravolga i generi negli elementi espressivi e contenutistici, usi tutte le tecniche e i procedimenti linguistici  possibili, tenga presente la nozione di allegoria secondo la lezione di Walter Benjamin. Nel solco di una crittura realistica che (lontana dal naturalismo e neorealismo e sulla base di un’interpretazione prettamente materialistica della storia e del mondo), indagando tutte le valenze del linguaggio, evidenzi gli elementi di innovazione e di rivoluzione nel corso storico, provochi riflessione, analisi. Anche identificazione emotiva, ma vigile, attenta, consapevole. Sia stimolatrice di vera conoscenza critica. Cortocircuito illuminante.

Quanto all’uso del prefisso super ha più valenze. Vuole sottolineare la differenza nella continuità, dal realismo allegorico proposto da Sanguineti, nelle “Tesi di Lecce”, quando rilanciava la lotta al “poetese” e al “narratese” dominanti nel mercato, e auspicava la critica radicale della letterarietà come categoria – con le sue istituzioni settoriali le storie… le cattedre ecc. – e come intuizione.

E’ richiamo e superamento della lezione di Breton, e del surrealismo, (l’unica avanguardia del passato che più mi ha coinvolto), con la configurazione contrapposizione, gnoseologicamente, della superrealtà, materia molteplice e inafferrabile, giusto indagabile, alla sua surrealtà, realtà assoluta e sintesi tra il mondo visibile e il mondo immaginario, rivelata dalla poesia. Che per me, in questo lungo frangente, è solo mezzo di lotta da affinare costantemente»[9].

 

Su questa base programmatica, dunque, sarà possibile ripartire e tornare a confrontarsi con la lezione del presente per investirlo e trasformarlo sottoponendolo alla critica radicale della poesia.

 

2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Nel 1988 per le edizioni della rivista TamTam, coordinate dal compianto Adriano Spatola che firmava anche l’introduzione al testo, era già uscito un testo assai singolare dal titolo Amsirutuf Enimma (dove il primo termine è, ovviamente, Futurismo alla rovescia ma coniugato al femminile) e di cui non si possono qui riportare brani per le difficoltà grafiche che esso comporta. I testi poetici in esso compresi  risultano stampati una volta sul recto e un’altra sul verso in modo da risultare modulati come una sorta di striscia di Möbius poetica.

[2] Il testo esce come supplemento ai nn. 8/9, 1992 (in realtà nel 1993) di Bollettario, la rivista che dal 1989 Nadia Cavalera dirige coadiuvata dal maestro Sanguineti. Bollettario è, inoltre, una delle prime riviste di poesia ad avere una versione online contemporanea a quella su supporto cartaceo.

[3] Ecce femina (che è del 1994) esce nella collana che affianca la napoletana rivista sperimentale Altri Termini.

[4] Marcello Carlino, Prefazione a Ecce femina cit. , p. 9.

[5] Nadia Cavalera, Nottilabio, con una nota di Giorgio Celli, Roma, La Città della Luna, 1995.

[6] A p. 7 di Nottilabio, l’autrice scrive del suo tentativo di scrittura: “Un limite? O il semplice inverarsi della mia poetica: descrizione di un fatto reale che possa assurgere ad allegoria di un altro fatto reale, su cui esprimere, così, in distanza per maggiore presa,  il mio punto di vista? Che se questo poi è duro, spietato, aspro e amaro, perché sabbia la realtà sino all’essenziale trivialità dei tempi, di questa sottovita, pazienza! So per certo che giova, nel dialogo, ai miei interlocutori. Come spero, anche agli altri lettori. E questo mi basta (: un giorno qualcuno mi chiamò Krista, per il resto ero sempre Rossella O’)”. Da questa poetica Nadia Cavalera non si distaccherà più.

[7] Venezia, Marsilio, 2004, presente nella prestigiosa collana diretta da  Cesare Ruffato.

[8] Nadia Cavalera, Salentudine cit. , p. 50.

[9] Nadia Cavalera, Superrealisticallegoricamente Roma, Fermenti, 2005, p. 57.

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