Critica Elenco — 14 Aprile 2021

Foto Di Erminia Passannanti

Erminia Passannanti intervista Nadia Cavalera, 14 aprile 2021

http://erodiade.blogspot.com/2021/04/intervista-nadia-cavalera.html

 

Impegnata nella ricerca poetica militante già dagli anni Novanta, unica poetessa inclusa nell’antologia Terza ondata, curata da Filippo Bettini e Roberto Di Marco sull’ultima possibile avanguardia del Novecento, da tempo chiami la tua poesia s/poesia. Quale ne è il motivo?

È una poesia altra che prende le distanze da quella tradizionale, più addomesticata, spesso tutta sentimentalismi, fiocchetti e fiorellini, o vuoti ghirigori autoreferenziali. È una poesia fredda, a progetto (spesso in concomitanza verbo-visuale), che insegue i campi della meraviglia e dello stupore, per lasciarti spiazzato, per una nuova semina. È insolita. Appunto spoesia.

Giocando molto sulla lingua, la mia spoesia, si confronta con tutto ciò che la circonda, cercando di raccontarlo e illuminarlo non solo per me ma anche per i lettori, così da coinvolgerli in un’esperienza conoscitiva diversa, costruttiva. E nel fare questo estrapola e deposita la mia impronta unica. Quella che è in tutti noi. Quella che vorrei che tutti riuscissero a tirare fuori per ricomporre il puzzle della verità ultima, in noi disseminata. Ecco affido alla s/poesia questo potere maieutico, rivoluzionario.

Potresti darci una definizione di scrittura dalla tua personale prospettiva?

È qualcosa di molto naturale, incontenibile, corroborato certo dalla pratica costante e massiccia della lettura. Qualcosa di impellente e gioioso, ma anche faticoso, come un qualsiasi parto. E questo sin da giovanissima, prima che, per un evento molto doloroso, mi imponessi il silenzio, come forma di autolesionismo compensativo. Da cui solo lentamente, negli anni, sono uscita fuori. E non del tutto. La perdita di un figlio segna l’animo per sempre.

Quali sono gli autori del tuo iniziale percorso?

Dante, innanzitutto. La Divina Commedia era sempre sul comodino di mio padre. All’inizio la sfogliavo distrattamente, giusto incuriosita dal fascino che esercitava su di lui (conosceva dei versi a memoria), e solo dopo, quando non potevo più confrontarmi con lui, ne ho capito il grande valore di impegno civile, politico. Fondamentale per la storia della nostra lingua. (Ed è sulle tracce dantesche che nel 1991 ho scritto “Vita novisssima”). Dopo Dante, venne il travolgente impegnato Majakovskij, il mesto lucido Pavese, e tanto folle Breton. (me li leggevo tutti ad alta voce, davanti allo specchio del mio armadio in camera), prima di approdare ai Novissimi (a quel tempo affidavo le letture alle registrazioni su cassette, che non so se siano ancora utilizzabili – qualcosa dovrebbe essere sopravvissuto nel mio canale Youtube). Ma i Novissimi sono stati la stazione di posta di un viaggio che continua, e di cui la mia rassegna su Twitter (“Poesia immortale”) è un resoconto. Con una peculiarità costante. Di essi la mia memoria, drasticamente selettiva in tutto, conserva solo il filo utile a tessere la mia tela. 

Cosa significa per te essere poeta? Che valore ha oggi la poesia, in Italia?

Essere poeta è per me andare alla ricerca di sé e di noi negli altri per stringere un patto di alleanza, di solidarietà che ci aiuti a vivere tutti al meglio. Ma oggi temo che questo mio ideale venga fortemente disatteso. La poesia ha, troppo spesso e ancora, il ruolo di un ditino linguistico alzato nella scalata sociale (come nel più lontano inizio), o di un pennacchietto distintivo sul cappello, che senza la dovuta consapevolezza di un’operazione salvifica da svolgere, con spirito di umiltà e servizio collettivo, rischia di rimanere vanitas vanitatum. Manca per me un progetto permanente d’avanguardia, non come pedissequa ripetizione del già dato, ma come adeguamento ai tempi correnti.

Rientra in questo progetto l’Umafeminità?

Sì. Se lo si applicasse ci sarebbero sviluppi positivi straordinari. Umafeminità è un neologismo che rimanda ad un progetto etico – linguistico che si basa sulla lotta radicale al sessismo linguistico e quindi prefigura un impegno sociale ampio. Rosa Luxemburg ha detto che il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome. Ebbene umanità è un termine falso, fuorviante, frutto di un sopruso, va quindi modificato, integrato. Rettificato. Umanità infatti discende da humanitas (da cui homo), che è la traduzione latina dell’ebraico adamà , la terra fertile, l’entità duplice, creata da Dio, al sesto giorno, secondo la Genesi, e che nessuna traduzione comune riporta (limitandosi tutte ad un generico maschio/femina- non uso il raddoppio della emme in quanto lo ritengo volgare).

Nel momento in cui il primo maschio ha ascritto a sé questo nome, chiamandosi Adamo, ha di fatto estromesso la femina che ne faceva parte. Non solo, ha poi addirittura avocato a sé la prima procreazione, proclamandosi fonte della creatura femina /Eva. Pura mistificazione. Mentre in realtà l’ha uccisa, con tutte le conseguenze negative sotto i nostri occhi. Il conflitto tra i due sessi non si è ancora sanato. Ebbene solo riportando alla luce nel nome il soggetto soffocato “fem” (uma-fem-inità) si potranno riprendere correttamente i rapporti tra le due parti contendenti. I linguisti sono tutti d’accordo nel dire che ciò che non si vede non esiste. Dunque per riportare la donna nella giusta considerazione, e nel giusto livello, va contemplata già nel nome che indica la specie. Umafeminità appunto. Così da relegare umanità per l’insieme degli uomini e feminità per l’insieme delle donne.

Questo è il libro che meglio ti rappresenta?

Credo di sì, anche se mi è particolarmente caro “Vita novissima”, perché costituisce il mio sdoganamento dalla neoavanguardia e l’inizio di un percorso linguisticamente e eticamente nuovo, sempre nell’ambito dell’avanguardia, che sogno ancora come contraltare indomito, polimorfico, permanente (niente exploit/contentini all’insofferenza oppositiva), del mutante capitalismo a cui si oppone. Ma sono molto sola, senza possibilità di successo alcuno della mia utopia. E questa piena coscienza mi toglie spesso il fiato.

Il 29 aprile ricorre l’anniversario della scomparsa di Marcella Continanza, poetessa e giornalista, alla quale tu eri particolarmente legata. Vuoi parlarci di lei?

Marcella Continanza è stata un’amicizia breve ma intensa. Mi telefonò espressamente per conoscermi, nel 2011, e poi le sue lunghe telefonate sono diventate una piacevole consuetudine, sempre più attesa. Ci siamo raccontate la nostra vita per telefono, e ci confrontavamo su tutto, come vecchie amiche. Ricordi e sogni personali, considerazioni esistenziali, sociali, politiche, possibili progetti da svolgere insieme. Spesso parlavamo di cinema e poesia, amori condivisi.

Ho saputo così del suo lavoro giornalistico, da professionista, in ambito culturale, a Como e Venezia; del matrimonio naufragato; della delusione cocente per aver perso la direzione della prima rivista di cinema in edicola «Vietato fumare: tutto cinema e dintorni» (rilevata da Berlusconi), e che l’aveva spinta a espatriare, quasi un esilio; del suo intenso impegno per fondare l’Associazione “Donne e poesia Isabella Morra” (in omaggio alla sua conterranea), una volta trasferitasi a Francoforte sul Meno, dove contava sull’appoggio del fratello Francesco, cui era legatissima. E dove lei è diventata, come ho potuto appurare, un punto di riferimento importante per le italiane in Germania. Di qui, nel 1997, la fondazione di «Clic Donne 2000 Giornale delle italiane in Germania», suo orgoglio fortissimo, per il ruolo aggregante e antropologico quasi che svolgeva. E nel 2008 la nascita del Festival di poesia europea (al quale partecipai nel 2012).

Mi sollecitava spesso a mandarle degli articoli, e poi a redigere gli editoriali. «Mi raccomando sii tosta come sai essere tu» mi diceva spesso, prediligendo, su molti temi, che concordavamo talora insieme, una linea dura. Ma lei, assetata di giustizia e di un mondo pulito, stretto nella solidarietà (punti sui quali convergevamo),  era in fondo tenera e fragile, come la Sibilla di un suo recente lavoro, che calata nella realtà dei nostri giorni, totalmente spaesata come qualsiasi migrante, camminava incredula, triste e stretta nella sua insicurezza, in una «metropoli senza frutti / senza oracoli da vantare», cercando di alleviare il «chiodo della vita» con la poesia.

L’ho sentita l’ultima volta il 15 febbraio dello scorso anno, faticava a parlare. «Che hai, le ho subito detto, sei raffreddata? ». Non mi ha risposto e questo mi ha amareggiata, non comprendendone assolutamente il motivo. Sbrigativa quasi mi ha detto: «Per aprile dobbiamo uscire con Clic. Mi fai un editoriale su Frida Kahlo? » (pare ci fosse una qualche mostra per quel periodo, a Francoforte). «Sì, ma relativamente alle sue poesie», ho promesso per passare subito, per l’affanno eccessivo, e i forti rantoli, a chiedere di nuovo della sua salute: «Ma che c’è? non stai bene? ». Nessuna risposta. Solo «Ciao filosofa di umafeminità». Niente altro. Eppure già sapeva di essere gravemente malata, che era a casa per aver firmato per uscire dall’ospedale (me l’avrebbe detto poi il fratello).

Non aveva avuto la forza di confessarmelo, ma aveva voluto comunque sentirmi, aver il brivido di discutere ancora il palinsesto, e salutarmi un’ultima volta, con quella specie di investitura che sul momento mi era parsa, tra i silenzi, quasi uno scherno. Io pigra come sono, mai immaginando che non stesse bene, ho aspettato, come tante altre volte, un altro suo sollecito per scrivere il pezzo, e non sentendola più ho pensato anche che avesse cambiato programma. Invece aveva cambiato luogo. Se n’è andata per sempre, il 29 aprile, con le sue “scarpe di mare”. A caccia con la sua Sibilla di risposte definitive.

 

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Nadia Cavalera

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