[Uno alla volta, per carità #5]
Terra sistemico trittico corpo ellittico
galleggiante lo spazio sovrastante
(: ama ad ampio ingaggio da giugno a maggio)
Figlia del sole sua prediletta prole di cose e viole
incanto santo biosfera ross’amaranto
(: brilla runica l’unica sua tunica)
Perforata insaccata frantumata per un pugno di neri ori
l’ascesa è discesa che trema di rena negli euro retroscena
Eviscerata snaturata violentata
s’imbeve greve di veleni e nel fuoco losco sfuma (: nera luna)
Terra nostra compagna sorella a breve ecumene
sei cristallo diamante e ti trattano da tacco e sballo.
(: non c’è resurrezione in nessuna pi’azione)
Ogni tuo granello nel pestello è puro gioiello
da incastonare nel diadema d’un eden consumato dal Male
(: trionfa sempre da millenni, non c’è dio che faccia cenni)
Terra fottuta perduta solo nel rispetto circospetto stretto
ti potremmo ritrovare
ma i saggi in ginocchio floscio cantano il ballo pinocchio
.
.
Nadia Cavalera è autrice molto legata all’esperienza delle avanguardie: è direttrice della rivista “Bollettario” (fondata nel 1990 con Edoardo Sanguineti) e ha partecipato alle iniziative della “Terza Ondata”. È l’organizzatrice, a Modena, del Premio Tassoni. I suoi testi principali di poesia sono: Amsirutuf:enimma (1988), Vita novissima (1992), Ecce Femina (1994), Brogliasso (1996), Salentudine (2004), Superrealisticallegoricamente (2005), Spoesie (2010). Negli ultimi tempi, è impegnata a intervenire sul “lessico sociale”: L’astutica ergocratica (2011) provvede a mettere in discussione la parola “democrazia”, mentre l’introduzione all’antologia Umafeminità (2014) è intenzionata a sostituire la parola “umanità”.
Il testo qui presentato ha evidentemente il carattere del forte impegno politico-culturale di impronta ecologista: il suo fulcro è la difesa della Terra dalle devastazioni dello sfruttamento e dunque opera, fin dalla prima parola (che è per l’appunto “Terra”) in prospettiva planetaria. Tuttavia l’autrice fa questo senza perdere mai di vista la sua vocazione sperimentale. Considerato dal punto di vista metrico, il testo si presenta irregolare, animato dal ritmo, ma debordante rispetto alle misure canoniche fino a un massimo di 20 sillabe, risultando i possibili endecasillabi (come ai vv. 2 e 3) casuali e non percepiti, nonché con accenti non proprio sempre canonici. Per di più, Nadia Cavalera sfrutta alcuni procedimenti peculiari che sorprendono il lettore: i due punto messi subito dopo l’apertura della parentesi (come se una frase fosse stata elisa) e ancora la crasi che unifica le parole mediante l’apostrofo (compare due volte in “ross’amaranto” e “pi’azione”). Ma il procedimento principale, che salta all’occhio immediatamente, è di natura sonora: è la rima interna, spesso addirittura triplice, che infila in schidionata l’andamento del verso. Si dirà che la rima è il procedimento più tradizionale che ci sia: però qui la rima è dappertutto tranne che nella sede in cui per tradizione dovrebbe stare, vale a dire la fine di verso; sicché non funziona per niente da ordinatrice, ha perso il suo ruolo “demarcativo”, piuttosto viene reinterpretata come una sorta di fuga del significante per la tangente, spinto da una molla associativa, da un impulso omofonico che determina la composizione.
Questa sonorità così dilapidata, che rimanda al piacere fonativo, si potrebbe definire con Orlando il “ritorno del represso formale”; senza dimenticare però che qui anche il contenuto vuole fare la sua parte. Le catene dei significanti non sono un gioco fine a se stesso; sono piuttosto il motore, ma direi le ali con cui si impenna il significato polemico del testo. Così come le parole si prestano a cumularsi con infaticabile lena, incastrandosi una nell’altra, in una sorta di utopia della felice manipolazione del linguaggio, così il pianeta si presenta come un luogo splendido e un habitat senza pari: è un “incanto” (v. 5), un “cristallo diamante” (v. 12), un “gioiello” (v. 14). O meglio: non è, sarebbe. Le modalità della poesia, infatti, sono quelle del rovesciamento del positivo nel negativo: così “l’ascesa è discesa” (v.8), in quanto lo sviluppo forsennato conduce in scenari da distopia; l’ambiente è un “eden consumato” (v. 15); le immagini virano al nero, colore mortuario, così nei “neri ori” (allusione all’“oro nero”, il petrolio, fonte di molte storture) come nella “nera luna” che gli fa specchio pochi versi più sotto.
Alcuni attributi rimandano a un versante religioso, come “santo” (v. 5) e come “ecumene” (v. 11) – quest’ultimo però ha ormai una sua tradizione utopica fantascientifica (vedi i romanzi di Le Guin). E tuttavia non c’è nessun conforto confessionale, nessun aiuto può arrivare dall’alto, le parentesi dei vv. 13 e 16, non lasciano equivoci sulla disillusione verso salvezze miracolose o compensazioni metafisiche. Piuttosto mi pare interessante considerare la personificazione allegorica: la Terra è fatta soggetto, “figlia”, “sorella” o “compagna” che sia. Come pure si attagliano a un essere femminile le catene di aggettivi che contrassegnano l’azione disastrosa: forse non “Perforata insaccata frantumata” (v. 7), che riguarda la materia inanimata, ma certamente sì “Eviscerata snaturata violentata” (v. 9), e anche, più oltre, “fottuta perduta” (v. 17). Qui la polemica ecologista pare sommarsi a una polemica femminista o meglio “umafeminile” come oggi preferisce dire la Cavalera.
C’è un recupero finale? Sì, starebbe in un’etica di “rispetto” per la natura; però, se leggiamo bene, il testo non dice “ti potremo ritrovare”, ma “ti potremmo ritrovare”: una sola lettera in più, però una bella distanza tra un futuro speranzoso e un condizionale assai problematico e scarsamente trionfalistico. Tanto più che è seguito da una avversativa: “ma i saggi in ginocchio floscio cantano il ballo pinocchio”; così conclude Casché letale tornando alla fine all’indicazione della danza suggerita dal titolo. È l’accusa alla stolidità degli esperti, e alla menzogna (“pinocchio”) e pavidità (“in ginocchio floscio”) di una scienza succube del mercato. Così termina, con spunti inventivi e punte oppositive la doppia tendenziosità di questo testo, animato da un’istanza forte senza però perdere un grammo dello spessore della scrittura.
Nadia Cavalera è autrice molto legata all’esperienza delle avanguardie: è direttrice della rivista “Bollettario” (fondata nel 1990 con Edoardo Sanguineti) e ha partecipato alle iniziative della “Terza Ondata”. È l’organizzatrice, a Modena, del Premio Tassoni. I suoi testi principali di poesia sono: Amsirutuf:enimma (1988), Vita novissima (1992), Ecce Femina (1994), Brogliasso (1996), Salentudine (2004), Superrealisticallegoricamente (2005), Spoesie (2010). Negli ultimi tempi, è impegnata a intervenire sul “lessico sociale”: L’astutica ergocratica (2011) provvede a mettere in discussione la parola “democrazia”, mentre l’introduzione all’antologia Umafeminità (2014) è intenzionata a sostituire la parola “umanità”.
Il testo qui presentato ha evidentemente il carattere del forte impegno politico-culturale di impronta ecologista: il suo fulcro è la difesa della Terra dalle devastazioni dello sfruttamento e dunque opera, fin dalla prima parola (che è per l’appunto “Terra”) in prospettiva planetaria. Tuttavia l’autrice fa questo senza perdere mai di vista la sua vocazione sperimentale. Considerato dal punto di vista metrico, il testo si presenta irregolare, animato dal ritmo, ma debordante rispetto alle misure canoniche fino a un massimo di 20 sillabe, risultando i possibili endecasillabi (come ai vv. 2 e 3) casuali e non percepiti, nonché con accenti non proprio sempre canonici. Per di più, Nadia Cavalera sfrutta alcuni procedimenti peculiari che sorprendono il lettore: i due punto messi subito dopo l’apertura della parentesi (come se una frase fosse stata elisa) e ancora la crasi che unifica le parole mediante l’apostrofo (compare due volte in “ross’amaranto” e “pi’azione”). Ma il procedimento principale, che salta all’occhio immediatamente, è di natura sonora: è la rima interna, spesso addirittura triplice, che infila in schidionata l’andamento del verso. Si dirà che la rima è il procedimento più tradizionale che ci sia: però qui la rima è dappertutto tranne che nella sede in cui per tradizione dovrebbe stare, vale a dire la fine di verso; sicché non funziona per niente da ordinatrice, ha perso il suo ruolo “demarcativo”, piuttosto viene reinterpretata come una sorta di fuga del significante per la tangente, spinto da una molla associativa, da un impulso omofonico che determina la composizione.
Questa sonorità così dilapidata, che rimanda al piacere fonativo, si potrebbe definire con Orlando il “ritorno del represso formale”; senza dimenticare però che qui anche il contenuto vuole fare la sua parte. Le catene dei significanti non sono un gioco fine a se stesso; sono piuttosto il motore, ma direi le ali con cui si impenna il significato polemico del testo. Così come le parole si prestano a cumularsi con infaticabile lena, incastrandosi una nell’altra, in una sorta di utopia della felice manipolazione del linguaggio, così il pianeta si presenta come un luogo splendido e un habitat senza pari: è un “incanto” (v. 5), un “cristallo diamante” (v. 12), un “gioiello” (v. 14). O meglio: non è, sarebbe. Le modalità della poesia, infatti, sono quelle del rovesciamento del positivo nel negativo: così “l’ascesa è discesa” (v.8), in quanto lo sviluppo forsennato conduce in scenari da distopia; l’ambiente è un “eden consumato” (v. 15); le immagini virano al nero, colore mortuario, così nei “neri ori” (allusione all’“oro nero”, il petrolio, fonte di molte storture) come nella “nera luna” che gli fa specchio pochi versi più sotto.
Alcuni attributi rimandano a un versante religioso, come “santo” (v. 5) e come “ecumene” (v. 11) – quest’ultimo però ha ormai una sua tradizione utopica fantascientifica (vedi i romanzi di Le Guin). E tuttavia non c’è nessun conforto confessionale, nessun aiuto può arrivare dall’alto, le parentesi dei vv. 13 e 16, non lasciano equivoci sulla disillusione verso salvezze miracolose o compensazioni metafisiche. Piuttosto mi pare interessante considerare la personificazione allegorica: la Terra è fatta soggetto, “figlia”, “sorella” o “compagna” che sia. Come pure si attagliano a un essere femminile le catene di aggettivi che contrassegnano l’azione disastrosa: forse non “Perforata insaccata frantumata” (v. 7), che riguarda la materia inanimata, ma certamente sì “Eviscerata snaturata violentata” (v. 9), e anche, più oltre, “fottuta perduta” (v. 17). Qui la polemica ecologista pare sommarsi a una polemica femminista o meglio “umafeminile” come oggi preferisce dire la Cavalera.
C’è un recupero finale? Sì, starebbe in un’etica di “rispetto” per la natura; però, se leggiamo bene, il testo non dice “ti potremo ritrovare”, ma “ti potremmo ritrovare”: una sola lettera in più, però una bella distanza tra un futuro speranzoso e un condizionale assai problematico e scarsamente trionfalistico. Tanto più che è seguito da una avversativa: “ma i saggi in ginocchio floscio cantano il ballo pinocchio”; così conclude Casché letale tornando alla fine all’indicazione della danza suggerita dal titolo. È l’accusa alla stolidità degli esperti, e alla menzogna (“pinocchio”) e pavidità (“in ginocchio floscio”) di una scienza succube del mercato. Così termina, con spunti inventivi e punte oppositive la doppia tendenziosità di questo testo, animato da un’istanza forte senza però perdere un grammo dello spessore della scrittura.
Commenti recenti