Nadia Cavalera
Salentudine
Marsilio, Venezia 2004
pp. 116
€ 11,5
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RECENSIONI
su Salentudine
MARISA NAPOLI
Niente nostalgia o difese campaniliste nel recupero del dialetto salentino, il galatonese Piuttosto, assumendo la lingua materna, Nadia Cavalera (redattrice, insieme con E. Sanguineti, della rivista d’Avanguardia “Bollettario”) intende rifondare la scrittura, proprio partendo da quella infantile eco interiore, che le restituisce un universo di suoni, segni sonori di parole disusate, mai dimenticate perché legate alla corporeità, alle pulsioni originarie. Circa la scelta del limerik, F. Muzzioli afferma: “…nei nostri tempi di localismo spinto e di nuovo campanilismo…il limerik torna buono a far cozzare insieme territorialità e assurdità”. Nella successione della filastrocca, quasi cantilena strampalata di bambini, seriamente impegnati nel creare personaggi o personificazioni fantasiose di oggetti e animali, la struttura stessa del limerik, con l’obbligata ripetizione del nome del personaggio e del luogo di provenienza leggermente modificato, crea antiteticamente una dimensione di non sense: l’assurdità del microtesto fa intravedere l’insensatezza del mondo rappresentato. Da un limerik all’altro il lettore è accompagnato in un curioso viaggio nell’universo di varia umanità di Lecce e provincia. Di Nardò è presentata una signora pettegola che non manda giù il furto di una gallina e sparge fango chiacchierando con le vicine, Lei “la signora vera di Nardò”. Proprio quel “vera”, sottolinea in ironica antitesi quanto affermato precedentemente, stigmatizzando quell’atteggiamento di dichiarata signorilità, smentita nei comportamenti. Come nella tradizione favolistica, gli animali parlanti, riproducono comportamenti umani che l’ironia sferza: della volpe di Ugento, indaffarata a inseguire uva e galline, si mostra più che la furbizia, la sua ingordigia. Il bestiario e il campionario umano si snocciolano in lunga teoria. L’icastica polifonia dei suoni galatesi traspare dalla traslitterazione dei segni: il lettore si tuffa, compiacendosene, in questa fluida materia fonica. Non solo suoni, ma sensazioni di gola, di tatto: “scagliozzi” e “purcidduzzi”, solleticano il gusto di infantili peccati di gola natalizi. L’erbaccia di S. Cesarea Terme, per i vermi, esclama “mi rizzicavanu li carni”: rispetto al “mi si accapponava la pelle”, il termine dialettale, matericamente, ci manda staffilate sulla pelle che vediamo rizzarsi; l’espressione italiana deve ricorrere a una catacresi, cioè alla metafora morta della pelle di cappone. La strampalata immagine di equilibrio (unico possibile per l’uomo attuale) del tizio di Galatòne sintetizza la rassegna: in balia del vento, vola leggero per l’aere come una “spitta”, una scintilla di luce. “Viaggio della memoria e festa della lingua” definisce il libro A. Prete. Concordo.
su Salentudine
Gerardo Trisolino
La toponomastica del Salento è in ordine rigorosamente alfabetico nei nonsense di Salentudine della “Galatea”, pseudonimo prediletto di Nadia Cavalera.
Da “nu tata ti Acquarica” a “nu tampagnu ti Miscianu” a “na formicula ti Zullinu”: la rassegna della geografia lirica e onirica, giocosa e ironica della Cavalera attraversa tutto il Tacco, dando un’anima perfino alle cose inanimate (“na bbàscula ti Castrignano ti lu Capu”, “nu traìnu ti Minervinu”, “na fòkara ti Taurisano”, “nu rsulu ti Veje”).
Salentudine è lo specchio di una intellettuale vulcanica e stravagante, nel senso etimologico del termine. Non è senza ragione che il lungo e sperticato sperimentalismo della poetessa di Galatone (la sua prima raccolta Amsirutuf: enimma risale al 1988, nelle edizioni Tam Tam), quel suo “superrealismo allegorico”, abbia fatto il giro del mondo (ospitandone il lessico) per approdare infine (ma senza tuffi nostalgici) alla subregione natìa, alle prese con il “grado zero della scrittura” rappresentato dal dialetto. Un itinerario tutto votato a travolgere e a stravolgere i luoghi comuni, la banalità della scrittura, l’uniformità del ritmo e dello stile, i topoi della lirica cortese e a inventare nuovi linguaggi, seguendo gli influssi della neoavanguardia (si veda, in particolare, Vita novissima del ’92).
Nel suo centralissimo appartamento modenese, in una fugace e improvvisa visita che le feci nel maggio dell’anno scorso, mi colpirono le icone naturali del Salento esposte come opere d’arte: ceppi di vite, tronchi d’ulivi, sterpi, pietre, terra rossa…
“Se parlare della ricerca e della sperimentazione del nuovo, nella prospettiva di un discorso di avanguardia… ha ancora, oggi, un senso, allora il punto di riferimento ha da essere un’opera come Brogliasso scriveva Barberi Squarotti nella sua testimonianza critica a quell’opera pluristratificata e a double face uscita nel ’96.
Ma basterà citare Adriano Spatola, Gianni Toti, Edoardo Sanguineti per comprendere di cosa stiamo parlando. E proprio con Sanguineti la Cavalera dirige dal ’90 la rivista “Bollettario” (oggi on line), da quando cioè lei emigrò da Brindisi a Modena, portandosi nella valigia del cuore il progetto di una rivista nata in terra messapica nell’aprile 1988 col nome di “Gheminga”, “bollettario quadrimestrale di letteratura”. Una stella che brillò per un solo anno, a dispetto della ingenua lungimiranza di quei poeti che volevano illuminare a vita una “provincia addormentata”, ricaduta poi nella sua ancestrale apatia e abulia.
Salentudine è, dunque, una rêverie salentina dolce e insignificante come un’antica nenia. La lingua materna vibra di altri rimandi e si riduce a puro significante, come in certi scioglilingua popolari. Le 103 città del Salento citate negli altrettanti componimenti sono solamente un pretesto per una cavalcata a briglia sciolte nei territori reali e surreali depositati nella memoria. Un vigile abbandono al puro e intelligente piacere di una breve fiaba a rima baciata: ogni componimento è rigorosamente composto da cinque versi che s’accoppiano a due a due, mentre l’ultimo è quasi l’eco del primo, tanto per chiudere il cerchio. E stupisce questa ordinata architettura in un’artista finora anarchica.
Delle fiabe queste misurate filastrocche hanno l’incipit canonico: “Nc’era”. Il guizzo sapido del gioco linguistico e dell’assurdo, che molto sarebbe piaciuto anche a Gianni Rodari, costituisce l’impronta digitale di Nadia Cavalera.
su Salentudine
Francesco Muzzioli
Dopo aver praticato, nell’ambito del suo progetto sperimentale e d’avanguardia, varie forme e travestimenti, giocando anche su ironici “eteronomi” stranieri, Nadia Cavalera reinventa se stessa adesso, con Salentudine, nelle vesti della poetessa dialettale. È l’ulteriore prova che la “funzione dialetto” costituisce una direzione ragguardevole della ricerca attuale, ma pure la conferma che tale direzione costituisce tutt’altro che un semplice e ingenuo ritorno alle origini. Se, infatti, il dialetto utilizzato è proprio quello di provenienza dell’autrice (di Galatone, in Puglia) per niente scontato è, invece, il genere poetico in cui è utilizzato, che è il limerick, strofa giocosa di ascendenza irlandese, totalmente estranea alla tradizione italiana. Da questo accoppiamento inusitato nasce un cortocircuito estremamente stimolante.
In primo luogo, il dialetto porta in dote una carica sonora e un “espressivismo”, per così dire, congeniti. Se Nadia Cavalera, nei suoi testi precedenti, ci aveva abituato alle catene delle allitterazioni e delle paronomasie a raffica, adesso può formulare, attraverso le tonalità del suo dialetto ribattute nelle rime esterne e interne, una musica stralunata e stridente. Particolarmente vivace è l’inserimento del lessico grottesco delle parole lunghe, di quattro sillabe e oltre, che si trovano preferibilmente nell’ultimo verso del limerick, dove servono per altro da aggiunta e allungamento nella ripetizione del verso iniziale, voluta dalla regola del genere. Si possono inventariare via via degli aggettivi ben curiosi, come “bbintulisciatu” (ventilato), “runciddata” (rattrappita), “mbirdicutu” (sporco), “bbisinchiata” (trascolorata), “scarrampulatore” (d’impervi luoghi). E aggiungerei due termini alquanto onomatopeici, che si trovano in versi contigui di uno stesso limerick: “struncunisciata” (malmessa) e “scancalimbitava” (s’intrometteva); il cui soggetto, se lo si vuole sapere, è una curiosa “buttana” di Tuglie.
Il dialetto come linguaggio nativo e quindi come lingua del corpo e delle pulsioni elementari agisce anche qui a portare verso il basso la tematica della poesia, circolandovi, insieme ai moti del ballo e a infantilismi irriverenti, questioni di sesso, di cibo o di bevuta. E venendo a ribaltarsi inopinatamente i livelli elevati e sacrali: come nei casi eclatanti del santo di Copertino che regala in premio mandarini ai tipi più violenti; o della fata di Cutrofiano che si carrucola in un cesso; o ancora, addirittura, del verme di Salice che si nasconde sacrilegamente nei santi sacramenti del calice e dell’ostia – fino alla “santa rioluzzione”, incendiaria e anti-istituzionale di una quaresima di Sannicola. Nessun Valore con la maiuscola può starsene al sicuro, come del resto nessun Senso con la maiuscola va avanti fino alla fine. L’effetto che comunicano questi testi, infatti, sta tutto come dicevo, in una sorta di scarica elettrica: mentre il dialetto porta con sé lo “spirito popolare” e l’affettuoso avvertimento della stramberia, dal canto suo il non-sense sconvolge il contesto e viola qualsiasi configurarsi di un ambiente “familiare”. Mentre il dialetto contribuirebbe a “naturalizzare” la scena, il non-sense provvede a “modernizzare” (e può accadere allora, come al personaggio di Alessano, di passare dal pianto al riso mediante opportuna “spina” connessa ad apposita presa), a invertire gli ambiti della natura (l’uccello va a piedi e lo scorpione vola), compresa la resa innaturale delle forme più quotidiane (compaiono persino “oe quatrate”, uova quadrate), allo sproporzionato e all’ossimorico (una “fòkara ddifridduta”: un falò freddo). Anche là dove la classica filastrocca è ripresa dalla tradizione, gli elementi citati si scambiano di posto e si ribaltano, tanto che è la civetta (qui “kukkuascia”) a mettere il dottore sopra il comò.
Nadia Cavalera, inoltre, lavora ad estendere la funzione del soggetto. I protagonisti del limerick, infatti, non sono soltanto uomini e donne, nei loro ruoli familiari (mariti, mogli, figli) o arti e mestieri (la “buttana”, il “piscarulu”, il “furnaru”, il “monacu”), ma anche animali e addirittura oggetti. È chiaro che, più si procede oltre l’umano, e più le azioni e le parole dei personaggi diventano improbabili e inverosimili. Bestie antropomorfe compiono numerose incursioni e lasciano il segno di una istintività strabordante e di una presenza sconveniente: vedi il ciuco di Bagnolo “ca sulu sulu si sculava nu litru ti barolu”; oppure la formica di Zollino che contraddice alle normali proporzioni, essendo “erta comu nu pinu”. Ma certamente la sorpresa è maggiore quando a compiere azioni umane sono vegetali (il carciofo), minerali (la pietra), o magari oggetti (la bilancia, l’orologio, il coperchio). “Nc’era na bbascula ti Castrignano ti lu Capu / ca riccugghìa muddècule cu nu tappu”: non solo la bilancia se ne va a spasso, sembra, ma è colta nel gesto incongruo di raccogliere briciole con un tappo! Ancora: “Nc’era nu tampagnu ti Miscianu / ca lli lizziuni si istìa ti cappillanu”: ossia un coperchio che si presenta alle elezioni vestito da cappellano, irridendo così al trionfalismo politico e parodiando il conformismo religioso, solo per la potenza delle associazioni sonore.
Nadia Cavalera, in questi anni, ha tenuto vivo il discorso dell’avanguardia e della polemica civile, soprattutto con i numeri della rivista “Bollettario”; anche questi suoi limerick, apparentemente giocosi, supportano una tendenza combattiva. Salentudine è un titolo che richiama la nostalgia dell'”originario”, ma la sua chiave è affatto ironica. Il ritorno alla propria terra è debitamente straniato da una forma che non c’entra per niente. Aggiungerei questa riflessione: se il limerick risulta oggi un genere apprezzato al di fuori della sua specifica tradizione, credo che il motivo stia nel suo legame con il luogo: la regola prevede cinque versi rimati e l’identificazione di un personaggio identificato soprattutto dal nome del paese da cui proviene. Tuttavia la “localizzazione” diventa la strada per giungere al lato opposto, quello dell’accostamento contraddittorio e improprio, e del salto nell’insensatezza. Ecco allora che, nei nostri tempi di localismo spinto e di nuovo campanilismo (in una parola, di “rifeudalizzazione”), il limerick torna buono a far cozzare insieme territorialità e assurdità. È proprio così in Salentudine, anzi, ancora di più: la scelta dialettale di Nadia Cavalera porta dritta verso le radici (e il libro, con la sua logistica, compone una mappa dettagliata della regione), mentre il genere “straniero” rende estraneo tutto – soggetti e gesti, ruoli e proprietà, suoni e significati – con l’esito di una rappresentazione sempre tesa, sorprendente ed abnorme.
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