di Nadia Cavalera (A partire dai primi anni Novanta, in concomitanza con l’avvio della rivista «Bollettario», fondata con Edoardo Sanguineti, cominciai a fare una serie di interviste, pubblicate in parte o totalmente su YouTube. Solo ora le sto trascrivendo. L’intervista a Elio Pagliarani, realizzata a Roma il 14 luglio 1992, è una di queste.) Entriamo […]
Foto di Nadia Cavalera
di Nadia Cavalera
(A partire dai primi anni Novanta, in concomitanza con l’avvio della rivista «Bollettario», fondata con Edoardo Sanguineti, cominciai a fare una serie di interviste, pubblicate in parte o totalmente su YouTube. Solo ora le sto trascrivendo. L’intervista a Elio Pagliarani, realizzata a Roma il 14 luglio 1992, è una di queste.)
Entriamo subito nel vivo del Gruppo 63. Com’è nato? Il suo nome è dovuto a Valerio Riva, come lui sostiene?
Non è vero niente. Certo, io non ho le prove sicure, ma so che il povero Filippini e Riva dieci anni dopo, dicevano che lo avevano inventato loro. Io stavo già a Roma e quello che so io è questo qui. Il barone Francesco Agnello dirigeva da due, tre anni un festival di musica contemporanea a Palermo, un festival molto apprezzato e che poi diventò il secondo d’Europa, dopo quello di Amsterdam. Però Agnello aveva contro tutta Palermo, sia l’establishment vagamente culturale, sia purtroppo anche gli orchestrali i quali si rifiutavano di dirigere.
Umberto Eco stava mettendo su un festival di livello internazionale ed era isolato, senza sussidi, allora tra i gruppi dei musicisti qualcuno pensò di invitare anche gli scrittori e i pittori per avere più consenso, più gente. Un musicista, Luigi Nono, bravo e ammanigliato, si rivolse a Nanni Balestrini e disse «perché non venite anche voi a Palermo, a fare il festival musicale d’avanguardia»? Questo per me pare fu l’inizio della faccenda. Balestrini ne parlò con Giuliani, con me, con Sanguineti, con i Novissimi insomma… anche qui ci sono delle storie tanto belle. Eh…
Sui Novissimi?
Sì, ma dopo, a fra poco. E allora … avevamo bisogno di un nome e poiché Giuliani era già in rapporto con qualcuno del Gruppo 47 in Germania… sapevamo che c’era questo gruppo… di qui l’idea di Gruppo 63. Io ne sentii parlare la prima volta da Giuliani, che conosceva bene il tedesco… anch’io ma meno.
Può precisare meglio l’origine?
A me fu detto: siamo nel 1963 e come quelli si sono chiamati 47 perché si erano formati in quell’anno, così noi ci chiamiamo Gruppo 63. Me lo disse Giuliani. Non so esattamente la storia del nome, può darsi che Filippini, che era specialista di tedesco, abbia dato qualche spunto, insomma non posso escluderlo.
Fu dunque una sigla per presentarsi ad un festival?
Certo, è verissimo. Era già uscito il libro sui Novissimi che aveva provocato un certo choc e sulla base di quello si fecero degli inviti, alcuni furono anche casuali, fatti ad amici, e che poi non c’entravano con l’operazione culturale che avremmo portato avanti e che era sottolineata da Giuliani in 4 punti (io sono d’accordo su tre e già lo dissi nel 1962), ma ci sono dei canoni precisi come quello dell’oggettività contro l’ipersoggettivismo.
Qual è il punto sul quale non si trova d’accordo?
È quello che poiché il mondo è schizofrenico anche la scrittura non può che essere schizofrenica. Questo è un rovesciamento della teoria del rispecchiamento naturalistico e quindi… è un punto non secondario perché coinvolge praticamente la possibilità di comunicazione. Quella tendenza andò avanti un po’ di anni, con la vittoria della pittura astratta e quindi totale rottura di ogni canone e la parola in totale libertà. Su questo non ero d’accordo dall’inizio, pur sempre in minoranza.
Ma torniamo a quel primo appuntamento del 63. Andammo dai musicisti, alcuni dei quali conoscevamo e stimavamo. Ricevemmo un invito, molto simpatico. La Feltrinelli pagò il viaggio ai suoi autori, io allora non lo ero e mi pagai il viaggio da solo come parecchi altri suppongo.
Con quale lavoro si presentò?
Ci avevano dato da allestire qualche lavoro teatrale, e questo ci piacque molto perché era nei nostri principi teorici del linguaggio. Io le consideravo una verifica del nostro linguaggio le possibilità teatrali.
In questo progetto c’era anche Manganelli, poi Balestrini che è sempre stato un sottile discreto fine manager, un piccolo Marinetti del gruppo.
Per il teatro si occupano due gruppi: i Gozzi a Bologna e Giuliani, a Roma anche io e Giordano Falzoni. Il lavoro lo fece soprattutto Alfredo e lì avevamo conosciuto per caso da Cesaretto un ragazzo straordinario che fu il nostro regista e fu poi uno dei fondatori di un certo tipo di cinema d’avanguardia in America, ma poi morì giovane. Non ricordo il nome, so solo che fu un ragazzo simpaticissimo (Fuma dalla sua pipa di schiuma di mare). Ho il programma del primo anno di Palermo, ma solo mia moglie me lo può trovare… Poi cosa stavo dicendo?
Parlavamo del regista americano giovane. Credo fosse Ken Dewey.
Dunque, lui fece tre pezzi, il primo, di Falzoni, non mi ricordo quale, non molto incisivo ma interessante (erano atti unici duravano 20 minuti, mezz’ora) lo fece lentissimo. Il secondo era la mia poesia “Lezione di fisica”, orchestrata molto bene. L’interprete era la Carmen Scarpitta che eseguiva gli assolo “l’odore delle erbe di campagna nel piatto di Cesaretto” e gesticolava molto, in altri punti era a canto gregoriano “se tu vuoi sapere che cosa hai a casa…” … il terzo a velocità pazzesca e la Povera Juliet di Giuliani prevedeva la musica di Frederic Rzewski a velocità straordinaria, scoppiettante… e alla fine mi ricordo c’erano fuochi d’artificio che ebbero molto successo… di un divertente straordinario. Federico con una frusta… La sera dopo un testo di Sanguineti molto bello ed eseguito bene e un pezzo di Alberto Gozzi. Il signor K molto intenso.
Ci fu successo di pubblico?
Enorme, anche ai dibattiti, escludemmo tutti anche la stampa per le letture che invece erano molto interessanti. Al pomeriggio i dibattiti in un gran teatro. Ricordo Anceschi, un duello Sanguineti -Moravia bellissimo e feroce perché sul problema aveva ragione Moravia… su questo punto non c’è dubbio e si rifaceva sempre al problema dell’informale, e sembrava nell’arte che vincesse il problema dell’informale. E io ero contro. Sanguineti teorizzò l’equivalenza dei segni parola-colore-suono. Equivalenza assolutamente insostenibile a mio parere, basta pensare che la parola deve essere tradotta invece il colore, il suono certo in alcuni punti sono pregiudicati, ma non sporchi come la parola, non legati.
Credere alla posizione di Sanguineti era dare spazio all’informale, voleva anche dire dare spazio ad una manica di sciocchini, di dilettanti di costruire passi, testi a cazzo di cane. E comunque questo non avvenne perché gli editori si rifiutarono di pubblicare parole senza orecchio musicale né niente. Sanguineti sosteneva l’equivalenza e Moravia no, ma la cosa bella, spettacolare, era che tutte le volte che Moravia stava per prevalere col buon senso, Sanguineti gli alzava il livello del discorso e a me pareva di vedere appunto una corsa al sacco, con lui poverino che cercava di raggiungere la corda e l’altro che gli spostava sempre di più il filo del discorso con una bravura e abilità straordinarie. A me per esempio mi capitò, una volta, sempre in quegli inizi ’63… ’64, di andare a Milano ad un dibattito tra Sanguineti e Cases. Io dentro di me per quanto riguarda le idee politiche, socio-culturali ero d’accordo con Sanguineti, ma allora facevo il tifo per Cases, però dopo 5 minuti ero totalmente per Sanguineti, perché era molto più bravo sul piano del duello intellettuale. Il contendere era sull’eguaglianza di letteratura e ideologia.

Autori del Gruppo 63 con Giuseppe Ungaretti. Pagliarani è il primo a sinistra con gli occhiali neri
Ma perché anche nell’altro duello era per Moravia?
In quanto la posizione di Sanguineti era pericolosa perché l’informale nella scrittura a me non stava bene, ma fui sempre in minoranza nel Gruppo 63.
E le motivazioni?
Per problemi di comunicazione, io ho sempre pensato e non mi ha mai spaventato nessuna forma espressiva e troppo inconsueta. Sin da bambino avevo già letto «Pùm! mamma quell’omo lassù!» (Canti orfici di Dino Campana, ndr) oppure senza capirci niente avevo ordinato libri da Vallecchi. Negli anni ’40, i cataloghi li mandavano a casa, e Vallecchi e Laterza, anzi quest’ultimo faceva degli scambi con i libri. Avevo comprato da Vallecchi, seppur in seconda edizione, i Chimismi lirici di Ardengo Soffici che era quanto di più astruso per un ragazzo di quella età. Mi avevano interessato poco e niente, ma non mi avevano scandalizzato, mi avevano un pochino abituato a certe forme, come del resto avevo sempre amato Boccioni, ma è più facile amarlo anche per un contenutista banale, ero stato vaccinato contro lo scandalo linguistico. Ma invece Sanguineti e Balestrini, Balestrini soprattutto… mbeh io mi trovavo politicamente con Sanguineti e in minoranza in quanto la maggior parte erano per una letteratura del disimpegno.
Erano su posizioni neo-positivistiche?
Sì, i più intelligenti sì. Ora… Sanguineti e Balestrini e ricordo soprattutto quest’ultimo teorizzavano la necessità di non farsi capire dalla borghesia per far guerra alla borghesia e quindi cancellare le piste. Io ero contrario a queste posizioni perché avevo soprattutto un problema di comunicazione. Ero contro anche a Eco. Ero totalmente in minoranza e l’ho pagato tranquillamente. Un aneddoto piccolino molto importante, io non avevo editori, ero in lotta già da allora con Mondadori.
Perché già da allora? Mondadori non le perdonò l’adesione al gruppo?
No, ma nemmeno per scherzo. Mondadori ha fatto delle cose… per esempio, quella volta che lavoravo con un editore francese piuttosto importante, di cui però non ricordo il nome, questo editore chiese a Mondadori i diritti di prelazione sulla Ballata di Rudi e chiese di vendere La ragazza Carla. Non gli rispose nemmeno. Né io lo seppi da Mondadori… e quando lo dissi a Sereni, lui mi disse «e mbeh, di che ti preoccupi non è che l’hai finita la Ballata». Come se le prelazioni non si prendessero proprio prima che i lavori finissero. E potrei dirne molte altre…
Dunque, Mondadori la pubblica ma in qualche modo ne ostacola la diffusione?
Ma certissimamente, pensi che persino l’Oscar Mondadori con la presentazione di Asor Rosa, tiratura di tredicimila copie, ne hanno vendute diecimila, dopo di che millecinquecento le hanno mandate al macero, quindi ne hanno vendute undicimila e mezzo per quello che ne so. Beh, non c’è stata una sola pubblicità individuale, hanno fatto dei paginoni sui cento libri di quell’anno, per me nemmeno una. Ma questo non c’entra niente.
C’entra per poter stabilire il clima culturale nei riguardi del Gruppo…
Ah, allora sì. Senta questo, vedevamo tutti i giorni il Manga, era molto amico soprattutto di Alfredo, anche mio, veniva spesso a trovarmi e oggi forse credo di sapere il perché, è una mia supposizione. Io ho tutti i suoi libri con dedica, ma ne ho due o tre doppi perché aveva paura di non avermelo mandato.
Era il segno di una grande stima… Ma tornando alla nascita del Gruppo?
Dunque, noi decidiamo di andare come ad una festa. Poi io assolutamente non ero mai stato a Palermo, andai in grande allegria, senza essermi mai preparato e feci uno sbaglio enorme e quando preparai un intervento due anni dopo ci misi sei mesi (non ho molti strumenti). Ebbene lì lessi i primi pezzi della Ballata di Rudi. Improvvisamente a settembre si scatena come un fatto di mafia con tentativi abnormi di boicottaggio dell’iniziativa. Manganelli che insegnava da precario all’università non venne, venne poi al secondo incontro costituendo con Sanguineti gli elementi di spicco per le loro convinzioni, ma anche per la capacità di retorica dialettica che possedevano diedero più forza al Gruppo ma furono anche quelli che più si avvantaggiarono dell’esistenza del Gruppo. Ci stavano altri bravi come Eco, ma non avevano le stesse doti degli altri due. Manganelli non venne alla prima riunione per tutte le pressioni che aveva avuto. Fu una cosa durissima e d’altra parte bisogna ammettere che avevano ragione quelli che non volevano quelle riunioni, per quello che ne sarebbe succeduto.
Qualcosa di più particolare?
Andato a Palermo per una festa, dopo un giorno, due, mi accorsi che anche nel nostro Gruppo s’era instaurata una grande organizzazione interna, c’erano quelli del primo giorno, quelli del secondo, quelli del terzo. C’era una catena, insomma, chi si era allineato, chi no. E io, da buon anarchico romagnolo, se avessi voluto non avrei saputo come fare, però vidi subito che il Guglielmi si era allineato in un certo modo… e mi adeguai. Forse questo atteggiamento nei gruppi è necessario per evitare la casualità, però così la libertà va anche a farsi benedire. Gente che mi pareva come me si era immediatamente allineata, gerarchizzata…
Divergeva con il gruppo allora, e adesso? Anche adesso dopo 30 anni?
Io divergevo con molta ingenuità e molta freschezza, e che la mia era vera ingenuità e non gioco è dimostrato da un episodio che posso raccontare per suo piacere, ma non voglio che venga registrato.
(Inserimento a sua insaputa su «Nuovi Argomenti» nell’antologia di Pasolini, con Roversi e Leonetti e nonostante questi l’avessero sollecitato a partecipare e lo stesso Pasolini l’avesse presentato come se lui ne fosse stato al corrente. n.d.r.)
Ha conosciuto bene Pasolini?
Tanto che, quando ero a Milano, da carissimi amici ero sfottuto perché troppo filo-pasoliniano. Quando mi sentii pronto di pubblicare La ragazza Carla e Inventario non mi sentii diminuito nel proporlo ad «Officina». Io ho una lettera, che è stata pubblicata nell’epistolario pasoliniano, dove lui mi dice che il poemetto Carla è espressionista e che l’avrebbe pubblicato.
A questo proposito, Roversi e Leonetti mi dissero che loro non sapevano niente di questa pubblicazione (comunque è presto per commentare questo periodo) tant’è che non uscì su «Officina», anche perché questa ebbe la sospensione per un anno. Poi uscì la nuova serie da Bompiani, ma il primo numero fu sequestrato e ci fu un can can, perché c’era un epigramma di Pasolini contro il Papa. Io l’ho scoperto solo 4-5 anni fa, quando è uscito tutto l’epistolario di Pasolini, dove si parla della guerra che mi aveva fatto Sereni per il mio linguaggio volgare nel senso di becero.

Elio Pagliarani (ph. N. Cavalera)
E poi?
Nel ’55 o ’56 un amico comune mi dice che Fortini cercava qualcuno che facesse le ricerche in biblioteca. Allora io andai volentieri a trovare Fortini, già lo conoscevo per “Ragionamenti” (in Francia ne fecero un’altra che si chiamava “Arguments”), la sua rivista dove lavorava pure Barthes. Io ci ho anche collaborato da giovane con “Ragione e funzione dei generi”, in cui parlo della necessità del poemetto per allargare il discorso poetico, che non doveva essere soltanto lessicale, ma anche sintattico. Oggi sono cambiate molte cose… mi pareva che le mie prime “Cronache” che a mio parere hanno delle cose molto interessanti e importanti, ebbene mi sembrava che le mie cronache contenessero troppo pietà di sé e conseguente bagaglio e mi pareva questo un difetto, quindi dissi non voglio parlare di me direttamente, ma a freddo e mi cercai un minimo di trama. Me lo chiese Crovi per Vittorini, che la ragazza Carla io la leggevo per le osterie ed era conosciuta ma io l’avevo già data a Pasolini. Quindi io l’avevo fatta in maniera fredda oggettiva per testimoniare come mi stesse a cuore il mare dell’oggettività.
Vado da Fortini, poi non ne parlammo forse perché Fortini, fraterno amico, era imbarazzato ad operare con me, affidandomi un lavoro minore. Parliamo invece di Pasolini e lui mi annuncia la nascita di “Officina” a Bologna (il primo numero uscì nel ’56 quindi questo discorso fu nel ’55). Pasolini gli aveva chiesto di collaborare e di fargli qualche nome di altri autori. Si alza va a cercare la cartolina postale, la trova, la guarda un momento, la rimette a posto poi dice “lasciamo perdere, rimandiamo a un’altra volta”. Fortini non sapeva e non lo sapevo nemmeno io che quella stessa cartolina Pasolini l’aveva mandata anche a me (l’ho saputo all’uscita dell’epistolario di Pasolini). Ne aveva mandate solo due: una a Fortini e una a me. Solo che Pasolini il mio indirizzo non ce l’aveva e l’aveva mandata presso le Ed. Schwarz di Milano. Dal quale io non passavo da tempo per un contenzioso per la pubblicazione di Cronache ed altre poesie. Avevo pubblicato questo libro a mie spese, con la formula che ne dovevo comprare duecento copie, e siccome avevo fatto inserire anche tre illustrazioni di Giuseppe Migneco, oltre alle ottantamila lire dovevo dare all’editore altre 15 mila lire, ma io ne riuscì a dare solo 5 e per quel debito di diecimila lire avevo interrotto i rapporti da un anno. Schwarz correttamente me l’ha data un anno dopo, quando abbiamo ripreso i contatti. Io spedii tre poesie a Pasolini, lui me ne pubblicò due. Scartò una che era obiettivamente bruttissima, una poesia d’amore molto sciocca dove avevo utilizzato un verso che mi aveva colpito nelle poesie che ricevevo all’«Avanti», e che era stata la conferma che chiunque, anche la persona più incolta, può produrre qualche buon verso. Il verso era “Una donna che mostra i seni tondi ha poco da dire con gli occhi”. “Le vicende dell’oro” era importante, poteva sembrare futurista. Altre mie poesie possono risultare passatiste, crepuscolari senza il lamento del crepuscolare, del piangersi addosso. (Pulisce e ricarica la pipa che essendo di schiuma del mar Nero, pare si solidifichi facilmente). Ma parliamo di cose più serie…
Funzione sociale della letteratura?
Pound sostiene che le arti servono contro le ripetizioni, le abitudini, per evitare il callo, la musica serve per tenere in equilibrio l’orecchio, la pittura per tenere in allarme la vista e la poesia per tenere vivo, in efficienza, il linguaggio. Che la lingua sia un istituto storico è evidente, liberarlo dai termini che appassiscono, invecchiano costituisce la funzione della letteratura.
Tenere desto il linguaggio vuol dire eliminare, selezionare, a prescindere da ogni intenzionalità.
Allora lei non è d’accordo con questo utilizzo che si fa ora di antichi linguaggi, delle lingue del due, trecento, per creare varie commistioni?
Ma questo l’ho fatto anch’io con gli Epigrammi ferraresi platonici per esempio.
Ma com’è possibile se per tenere desto il linguaggio bisogna fare una pulizia continua di termini?
Bisogna vedere lo scopo per cui vengono ripresi certi linguaggi. Se lo scopo è ornamentale, è tipico delle attività definite postmoderne. Non serve a niente. Funzioni decorative e pseudoestetiche. Maschera della falsificazione. Invece io, per esempio, ho adoperato il linguaggio del Savonarola per due motivi. Primo perché certe affermazioni moralistiche mi sembravano più incidenti, efficaci se pronunciate col linguaggio del tempo. Secondo perché mi pareva, nel rispetto di quanto sostiene Pound, che quelle parole non fossero obsolete.
Quindi erano ancora vitali.
Sì, è stato il recupero di una vitalità soffocata, a bella posta considerata superata. L’operazione opposta. Naturalmente il giudizio sulla validità di questa operazione va affidato ai risultati, cioè se la lettura di quel lavoro ti dà un accrescimento di vitalità, che è lo scopo fondamentale della letteratura, uno di quei tre elementi di cui parlavo stamattina, allora vuol dire che funziona ed è vero, altrimenti è un puro orpello. Questo secondo Pound. C’è un altro tipo di funzione sociale della letteratura e col quale io concordo, è un significato che io aggiungo a quello di Pound, che è un significato su tutte le arti, e che prescinde da ogni intenzionalità. Non avere nessuna funzione immediata, nessuno scopo immediato, quindi in un altro senso di non servire a nulla, e questa mia idea la espressi per la prima volta nella prefazione ad una mostra del pittore Gastone Novelli, nei primi anni Sessanta.
La funzione di non servire a nulla è in assoluto una funzione contro il potere, contro la programmazione. Bisogna tenere aperta la porta all’errore o al non far nulla che è una funzione vitale, fondamentale per la libertà umana. Quindi l’altra funzione che io aggiungo alla posizione di Pound, e che vale per tutte le arti, è quella di tenere in funzione la libertà, la possibilità dell’errore. Per esempio, lo scienziato, il medico, l’ingegnere, non può sbagliare, mentre gli artisti si possono permettere l’errore. Lo paghiamo soltanto noi artisti, lo paga l’operatore e non il fruitore. Dunque, la strada aperta all’errore o anche al non fare o all’anarchia è la funzione specifica dell’artista. Questa è la mia teoria.
Cosa significa verifica in re e non ante rem?
Da un lato i nomi sono consequentia rerum…
Ma lei ci crede che sia veramente così?
Sì, però il nome non è la cosa, ma la cosa è conseguenza del nome, così il realismo, la realtà reale è nella cosa, ma noi questa entro certi limiti non possiamo conoscerla. L’artista al massimo è un testimone, uno specchio.
Ma il concetto di specchio nega quella vitalità che invece c’è nel dire, nel fatto che un artista ha la funzione di tener vivo il linguaggio?
Certo, infatti la funzione dell’artista si svolge soprattutto con la modalità dell’opposizione.
Assorbe e lo elabora…
La funzione di elaborare il linguaggio l’artista più che altro l’assolve con la modalità dell’opposizione, ma l’opposizione è un mezzo, ma non un fine. Il fine è la rigenerazione. Alcune correnti di artisti hanno pensato a questo proposito che l’opposizione fosse una cosa indegna, altri che fosse un fine, ma tutti hanno sbagliato perché è solo un mezzo, però questa opposizione del nostro tempo si concretizza come opposizione alla situazione attuale.
Possiamo dirlo anche così? Per opposizione si intende questo: assorbire dell’artista sì, ma elaborare, e non accettare passivamente ma porsi criticamente dinanzi all’oggetto?
Certo.
Lei dice di essere un moralista padano, perché?
Le do due, tre esempi molto carini. Quando venni a Roma da Milano (ho fatto il liceo a Rimini, l’Università a Padova perché la facoltà di Scienze Politiche c’era solo in questa città, oltre Firenze e Perugia), ebbene a Milano andai alla Cattolica, ma nella prima sala c’era scritto “sala di preparazione alla comunione”. Appena lo vidi, me ne andai. Mi ricordo che alla Cattolica si mangiava un po’ meglio che alla governativa, anche per i libri della biblioteca si avevano meno storie. Non ho mai seguito lezioni, andavo solo a litigare. Dal ’45 al ’50 oscillavo tra Milano-Padova-Viserba. Fino al novembre del ’60 sono stato a Milano dove ho realizzato la mia educazione sentimentale. Sono a Roma da 32 anni. Venni a Roma pazzamente malvolentieri. I primi mesi stavo perdendo l’uso della parola perché mi pareva gente così strana. Ero capitato in un giro un po’ scemo, con una duchessa, la Olivetti, divorziata, poi dopo sei mesi mi accorgo che ricomincio a mangiare gli umidi (a Milano negli ultimi anni mangiavo insalata e carne ai ferri e riso in bianco) e dopo, mentre a Milano soffrivo d’insonnia con angoscia, qui a Roma sperimentavo la sonnolenza. Poi mi accorsi che l’ambiente dell’«Avanti» di Roma era peggio, più sfilacciato, meno serio di Milano, ma non me ne importava più niente. Recuperai il sonno e recuperai il cibo. Per dire del moralismo di Milano, le portinaie erano pallidissime magre e bianche, mentre a Roma erano panciute grasse e paciocche e Cristo, mi dissi, questo vuol dire qualcosa. Allora scoprii che a Milano negli anni ’50 la prima domanda che uno faceva quando conosceva qualcuno era “che lavoro fai, cosa fai, cosa ti interessa”. Scoprii all’inizio con orrore che a Roma questa domanda era offensiva, che non bisognava farla e poi convenni che era assolutamente giusto così. E dove sta scritto che uno deve lavorare, che deve soffrire? Per i primi anni ero ubriaco di Roma. Sono sposato da 16 anni, mi sono sposato a 49 anni, mia figlia si chiama Liarosa, che sarebbe Rosalia, il nome della nonna materna. Mia moglie Cetta è nata a Roma, ma da genitori siciliani. Questo spiega il mio moralismo padano. Nella pianura padana la gente è meno intelligente, ha riflessi molto più lenti dei fiorentini, dei siciliani, dei napoletani.

Ma crede, veramente che ci siano delle caratteristiche regionali e che non dipenda dal singolo individuo?
No, assolutamente, ho avuto molto esempi, io me ne sono accorto a 40 anni e ho cominciato ad essere orgoglioso di essere romagnolo la prima volta che me ne sono accorto, quando mi ha fatto piacere che qualcuno mi ha detto che avevo la camminata di mio padre. Amo sapere di una persona quanto più possibile, sui maggior sui, se ha agganci altolocati, su chi è di origine altoborghese. Su queste cose sono stato molto attento, come una comare. Così quando lavoravo a «Paese Sera» come critico teatrale ho notato che la media di lavoro della gente non superava mai le tre, quattro ore e quelli che facevano carriera erano quelli che lavoravano di meno e si mettevano a fare pissi pissi bau bau nei corridoi. Ma a proposito di pissi pissi bau bau, noi avevamo due fannulloni tipici, uno era un napoletano figlio di un generale e l’altro un torinese forse con una madre importantina, forse partigiana. Tutti e due non facevano niente, ma mentre il napoletano era gentile con tutti e aveva un sorriso per tutti e teneva tutti di buon umore, il torinese invece aveva l’aria trucida e dopo abbiamo scoperto anche che scriveva lettere anonime contro tutti ed era veramente un mostro. Esistono veramente queste differenze. La leggerezza, l’eleganza che hanno i napoletani è incredibile, così il loro savoir faire. Io ho sempre stimato moltissimo i napoletani, ho sempre avuto per il sud una grande passione.
Una volta in treno tra tante chiacchiere uno mi disse: lo sa quanti napoletani fanno i minatori? lo ci ho pensato un po’, non lo sapevo, ma poi ho detto: nessuno. E ci ho indovinato ed era bene così. Dove sta scritto che deve farlo? Che per campare si debba andare sottoterra? Questo l’ho capito, venendo a Roma. Il mio povero nonno materno era stato costretto a fare il minatore, ma il napoletano fa tutt’al più il cameriere oppure il ladro. Quel tipo che si scandalizzò, era uno statistico, di origine nordica e quindi il fondamento anarchico romagnolo in me c’è fortissimo, anche senza saperlo. L’ho ereditato da parte di mio padre, il cui padre non si sapeva come fosse morto. Chi, come un mio cugino, diceva ucciso dai fascisti (ma nel 1908 non c’erano ancora) e chi, come la figlia dello stesso, perché preso a calci, mentre tornava a casa, dalle bestie che aveva comprato, alla fiera di S. Arcangelo. Invece pare che sia stato ucciso in un’aggressione perché socialista. C’erano sempre lotte, e la Romagna era come la Sicilia allora. Mio padre si iscrisse nel ’13 a sedici anni e fu perseguitato, per i fatti della settimana rossa, schedato e nella Prima guerra mondiale, quando non era in prima linea, era sempre in galera perché temevano che facesse propaganda anarchica per dire… ma perché siamo arrivati qui?
Parlavamo delle caratterizzazioni regionali dei napoletani. Ma io pigri non li direi gli emiliani.
Pigri al massimo sono i bergamaschi e i bresciani, ma vuole mettere i riflessi di un emiliano con un fiorentino (che mi stanno antipatici, mentre i toscani no), ma la rapidità dei riflessi di un fiorentino, di un siciliano è straordinaria. Mentre noi ci mettiamo alcune frazioni di secondo, loro anche meno.
Maggiore intuizione?
No, rapidità di riflessi. Gli altri che hanno i riflessi lentissimi sono i sardi, ma i sardi hanno una grande dignità e compostezza intellettuale.
E i pugliesi?
In linea generale quelli del sud hanno riflessi pronti e sono più intelligenti della media. Dei pugliesi conosco poco, non ho avuto modo di studiarli bene.
Quindi lei ha lavorato prima all’«Avanti» di Milano e poi a quello di Roma.
Dunque, io come lavoro ho guadagnato in pratica da quando a 7, 8 anni davo lezioni private ufficialmente.
Aiutava forse suo padre o sua madre?
No, no, mio padre faceva il vetturale. Lui era il ramo più alto della famiglia perché aveva fatto oltre alle elementari, la sesta. Poi a undici anni per la morte del padre smise. Io all’età che dicevo facevo i compiti gratis ai miei compagni, ma poi smisi, erano diventati un po’ tanti e poi ci stava qualcuno che mi era antipatico, un certo P. P., della famiglia che ammazzavano le guardie dei finanzieri.
Come, ammazzavano i finanzieri?
Sì, perché in Romagna c’è stata una lunga guerra contro la guardia di finanza per la ghiaia del fiume Marecchia e per la sabbia del Mare Adriatico. Beni che avevano lasciato i papi e che, diventati beni demaniali, era vietato prelevarli. Prima che finisse la guerra nel 1945 in una delle case di questo P. P. una grande mareggiata, sarà stato il 1942 o ’43, scoprì moltissimi cadaveri, tutti appartenenti alla guardia di finanza. Una casa di prima linea quella, nella lotta contro lo Stato, che in Sicilia c’è ancora, mentre in Romagna finì negli anni ’40. Ma in Romagna c’era anche la vera mafia, io sono uno dei pochissimi che può testimoniarlo
Come si manifestava?
Io come sono io curioso delle biografie esterne, così anche delle biografie individuali. La mafia in Romagna fu sconfitta per tre motivi: 1) Il turismo e il benessere; 2) la mancanza di democrazia, così che sotto il fascismo non c’era l’arma del ricatto dei voti, che esiste anche negli Stati Uniti; 3) la maniera forte perché Mori c’era quasi arrivato in Romagna, ci arrivarono con le maniere forti.
Ma io ho conosciuto il capo mafia, era un classico capo mafia, portava la coppola apposta come un classico del Passatore Cortese. Richiama la storia del bandito Giuliano, lui aveva tutta una consorteria che lo proteggeva con i rifugi. Io da bambino l’ho conosciuto negli anni ’30, diceva tre cose: che aveva ammazzato un uomo; che andava a Roma a piedi per non spendere i soldi del treno, e che lui era stato il capo (ma questo l’ho saputo dopo) dei vetturali di riserva che avevano una tradizione di socialismo. Loro avevano protetto Mussolini nella settimana rossa tant’è che negli anni Trenta Mussolini andò a ringraziarli. Mio padre è stato a lungo perseguitato dai fascisti e vennero tre volte le squadracce da Rimini per picchiarlo. La prima volta si salvò scappando dalla piazza, dove stavano i vetturali verso la spiaggia e arrampicandosi poi su un capanno. La seconda volta si salvò perché lo avvisarono i fascisti di Viserba, suoi vecchi compagni di scuola. La terza volta vennero e circondarono tutta la piazza e lui era lì con gli altri amici e non poté scappare. Erano una ottantina di persone comandate da un maggiore. Lui non si muove, è ormai incastrato e sulla carrozza vanno per tirarlo giù quando il capo mafia, non so bene perché, o perché mio nonno era un capo mafia o perché era il capo dei vetturali, disse al comandante della milizia «quello è un bon burdel, è un ragazzino, e non si tocca», e quel maggiore della milizia capì e si ritirò. Prova che nel 1922 c’era ancora la mafia, e quello era temuto e rispettato. Inoltre, mio padre che non parlava mai, una delle pochissime cose che mi disse, fu quando facevo le scuole medie: «vai a scuola con Colombano? Aiutalo, dagli una mano». Colombano era il nipote adottivo perché la figlia del capo mafia si era sposata e non aveva avuto figli, per cui si era preso questo orfanello dell’ospedale di Rimini e suo marito, a Viserba, era chiamato “e séndr” (trascrizione incerta n.d.r.), il genero tout court, in riferimento tacito al suocero. Inoltre, a dimostrazione della presenza della mafia in quegli anni, ricordo che in un giornale di Rimini nel ’44-45, quando la città era stata liberata, diretto da uno scrittore, Federico Zardi, scrissero un articolo con questo titolo “È morto l’ultimo capo della mafia”. A chiare lettere. Comunque si riferiva ad uno più grosso.
Il capo mafia di cui io ho i ricordi era locale, il nipote aveva due cognomi, Manucci Faini Colombano il cui nonno Faini dilapidò il patrimonio in iniziative socialiste comuniste e alla fine per riconoscenza il comune comunista gli diede un posto di vigile urbano.
Tornando alle ripetizioni, da più grande comincio la mia esperienza più seria accettando la proposta di un ragioniere che mi chiese di seguire i suoi due figli in terza e quinta elementare. E che se l’avessi fatto avrei avuto 5 lire al mese, che allora era una cifra straordinaria. Fu una cosa bella, solo che una delle prime volte che corressi un loro lavoro, feci un errore pauroso, corressi la parola “qualcuno” inserendo l’apostrofo “qualc’uno”. Normalmente poi in estate davo lezioni di latino e inglese, anche di matematica e di algebra. lo ho fatto 4 anni di istituto tecnico (che aveva il latino, era più della media di ora), poi sono passato allo Scientifico e mi sono iscritto a Scienze Politiche.
Il massimo di guadagno e di lezioni l’ho avuto nel 1943, quando davo lezioni di filosofia a persone che erano tre quattro anni più grandi di me e mi ricordo l’imbarazzo loro in quanto non sapevano come chiamarmi. Poi a Milano ho campato fino a che non sono andato all’«Avanti» nel ’56.
E prima, nel 1947-48 ero stato impiegato in una azienda di Import-Export, poi a Viserba avevo fatto due estati come impiegato di banca. E da bambino a 10 anni avevo lavorato da un vinaio e andavo in giro a fare il venditore di vino e questo mi scocciava. Portare a casa il vino che qualcuno aveva acquistato mi andava bene, ma andare in giro a chiedere se volevano vino questo mi scocciava parecchio. A Milano, appena arrivato, ho fatto ripetizioni private e in scuole private, prendevo 400 lire all’ora. Allora dovevo rimediare 1.500 lire al giorno solo per le ore effettive, senza niente per le vacanze e le festività. Quindi per rimediare 40.000 lire al mese, solo nei mesi di lavoro facevo 40 ore la settimana di lezioni, una cosa pazzesca.

Lo fanno anche in fabbrica oggi?
Sì, ma l’insegnamento è più pesante, si vedano le 18 ore oggi degli insegnanti. L’insegnamento stanca di più.
E questo lavoro l’ho fatto fino al ’55, poi per puro caso sono entrato all’«Avanti», bazzicavo per la Casa Editrice il Gallo e improvvisamente vedo un amico, gli chiedo cosa fai qui, lui dice cercano gente in quanto aumentano le pagine, sta nascendo Il Giorno, hanno paura di essere distrutti dalla concorrenza. Allora mi rivolsi ad un mio amico, che si chiamava Gianni Bosio, che dirigeva le Edizioni del Gallo e mi feci raccomandare da lui al direttore.
Ho lavorato per 2-3 giorni, mi sembrava un lavoro da pazzi e stavo rinunciando passando il lavoro ad un amico, ma poi mi hanno sconsigliato. Lavoravo 20 ore al giorno per quattro, cinque mesi, perché non volevo rinunciare a tutti i miei impegni. All’inizio mi appiopparono molto lavoro, le cronache della provincia che comunque a me piacevano. Questo lavoro doppio lo feci da aprile fino alla fine di giugno, poi scelsi solo il giornale, dove, mentre io teoricamente ero nenniano, comandava tutta l’estrema sinistra più verbosa e parolaia (e si è saputo dopo che erano tutti pagati e avevano la doppia tessera). Quando al cambio di guardia vinsero i nenniani, venne fuori della gente che si sentiva puzza di governo. Insomma, quando vincono i nenniani, quelli che volevano che il Partito Socialista andasse al governo, io mi trovo a disagio completamente. In teoria ero con loro, ma alla resa dei fatti, diventai un amendoliano. Con questi nuovi compagni con gli atteggiamenti di piccoli manager mi sentivo a disagio e diedi le dimissioni. Rimasero molto stupiti e io posi una condizione. Sarei rimasto solo se mi avessero dato le pagine culturali. Che però erano da seguire a Roma, e fui trasferito. Ma una volta a Roma, non mantennero l’impegno, mi fregarono e mi isolarono, ma non me ne importò niente. All’ «Avanti» di Milano ho fatto 4 anni pieni, a quello di Roma solo 1 anno e mezzo.
E poi che ha fatto di lavoro?
Per sette otto anni il disoccupato e vivevo giocando a poker e avevo una consulenza con un editore di 100.000 lire al mese, era l’Editore Rizzoli quando c’era uno molto civile e io me ne andai quando se ne andò fra l’altro, quella persona civile che mi aveva assunta. Si chiamava Porzio. Fecero fuori Domenico Porzio e venne fuori un pazzo scatenato, quello che lanciò Bevilacqua. Ancora adesso è nella televisione e si chiama Ferrauto, uno dei primi fascistoidi precisi.
Nel ‘62 quando avvenne la scissione tra PSI e PSIUP, io per questa scissione non rinnovai la tessera al PSI, né mi iscrissi al PSIUP. Il 1956 è stata l’ultima volta che sono stato iscritto ad un partito. Di liquidazione all’«Avanti» non presi praticamente nulla, mi diedero 2.000.000 di liquidazione che allora per un giornalista era niente, a 200.000 al mese per dieci mesi che mi facevano vivere bene. Dopo i 10 mesi ho cercato e ho avuto la consulenza da Rizzoli, e non facevo niente. Il poker lo conoscevo dall’infanzia, in realtà le grandi passioni le avevo quando perdevo, io ho avuto delle emozioni dostoevskjane. A dodici anni mi ricordo che perdetti 200 lire, che è una roba che mio padre dovette lavorare per tre mesi, quindi mi sentivo un verme, un vero delinquente, il massimo allora, quelle sono grandi emozioni mistiche.
Qual è stata la massima cifra che ha perso?
II gruppo di poker era formato da Gigi Malerba (si giocava quasi sempre a casa sua), Jas Grawronski, questo non era fississimo ed era un ragazzo molto giovane, molto perbenino e gentile, poi c’era il grande pittore un po’ pazzo Gastone Novelli, oscillava Marussi. La prima volta che giochiamo a poker sarà stato nel ’61-62 per una pura combinazione io vinco 200.000 lire che non era poi poco, saranno 4.000.000 di adesso e per combinazione li perde questo Marussi che è uno sciocchino, che ereditò qualche anno dopo questo fatto da suo padre un miliardo e settecento milioni. Lui però era sposato con una Visconti ed aveva avuto dei figli per cui aveva avuto il buon senso di passare la maggior parte di questa eredità alla famiglia. Insomma, la parte che si riservò a lui se la consumò in due-tre anni facendo produzioni cinematografiche. Era figlio di un ricco giornalista dell’Espresso, era uno che piangeva, insomma non era uno allegro, a me dispiacque un po’. Non me le dà, subito mi regala un libro che ho ancora (che è sul cavallo trottatore in quanto mio padre aveva messo su un piccolo allevamento). Ci vediamo la settimana dopo, io gioco più da pazzo del solito per perdere così da pareggiare, ma vinco di nuovo altre 200.000 lire. Insomma, dopo un po’ si sparge la voce che ero imbattibile, una fama, una nomea e per due tre anni dovevo essere all’altezza della fama e vincere sempre. Una cosa faticosissima, per vincere il metodo principale era questo: bere poco, così che la mattina alle 6 ero il solo completamente lucido quando si aumentano e si caricano le poste. Un altro che beveva meno e teneva bene era Luigi Malerba, era meno bizzarro, meno estroso, gli esiti furono stupendi. Una ragazza di qualche anno più grande di me e che oggi fa le scenografie per quel regista un po’cattivo con la barba… Ferreri. Questa ragazza una volta giocò a poker con me e io l’ho sentita con le mie orecchie che diceva “sì, ieri sera ho perso ventimila lire, ma che soddisfazione veder giocare Pagliarani”. Altra soddisfazione fu Nicola Caracciolo, uno dei principi Caracciolo, che faceva parte anche del nostro giro. Jas Grawronski, quando è andato in televisione, è entrato nel giro di gioco di Gianni Agnelli, è diventato anzi uno dei suoi tuttofare. Nicola Caracciolo quando ha visto che c’ero io al tavolo, trovò la scusa della moglie per allontanarsi, ha avuto paura di giocare con me. A questo punto era arrivata la mia fama, che ne parlo spesso con soddisfazione grossissima.
Dov’erano i luoghi in cui giocavate?
In via della Dataria, attaccata al Quirinale. Credo che fosse il palazzo della bella Rosina, quello che Vittorio Emanuele II fece costruire per la sua amante, regina morganatica. Oppure al palazzo di Tittoni, ministro della Real casa, in affitto. Altre volte nella casa di Malerba che ha tutt’ora, che dà con le terrazze su Piazza Navona, una casa bellissima, comprata per poco negli anni ’60, adesso varrà 5 miliardi. La pagò 40 milioni. Ora vive anche ad Orvieto.

E con la poesia?
Io ho cominciato a scrivere poesie nell’adolescenza, a 13 anni, e in quegli anni a Roma avevo già pubblicato La ragazza Carla. Avrò vinto al massimo 2 milioni. Conservo di Rizzoli una lettera dove si dicevano contenti delle mie dimissioni in quanto erano in procinto di licenziarmi loro. Per un anno feci il consulente da Bompiani con 150 mila lire al mese, 4-5 anni dopo vendette la casa editrice e decise di eliminare quasi tutti i consulenti. Tutti lo sapevano tranne io, che il 6 settembre mi vidi arrivare la lettera di licenziamento, mentre contavo su quella entrata fino alla fine dell’anno. La cosa più triste è che quell’unico anno che fui da Rizzoli presi la casa in via Margutta, cominciai a fare dei lavori perché la casa era grande e molto umida, squinternata, e l’unico introito che ebbi da settembre a marzo era 105 mila lire e le tre lezioni che avevo fatto all’istituto Gramsci. Ignaro continuavo a spendere le mie 500 mila lire al mese facendo anche debiti. Un bel giorno squillò il telefono e mi chiesero di fare il critico teatrale a «Paese Sera», ho tergiversato un po’ (comunque io avevo fatto teatro su «Quindici»), accettai e fui subito assunto con uno stipendio abbastanza decente, che per una decina d’anni fu importantissimo, ci rimasi finché non andò in merda. Nell’82-83 approfittai di alcune proposte di facilitazione ai fini pensionistici per andarmene con la pensione minima.
Dopo si è dedicato solo all’attività letteraria. Qualche amore in quel periodo?
Verrebbe troppo lungo, ho molte poesie d’amore… Però su questo argomento voglio raccontare una storia, circa un imbecille, perché non aveva nessun titolo ad intervenire come ha fatto solo perché aveva letto qualche mia poesia – l’ultima volta che l’ho incontrato sarà stato nel ’64. Si tratta di Zanzotto che mi disse: tu hai molto peccato (per il Gruppo 63 voleva dire), ma però ti deve essere molto perdonato perché hai sofferto molto d’amore. Voleva essere una frase gentile, ma in realtà era la frase di un imbecille in quanto non aveva nessun titolo di considerarmi peccatore e di perdonarmi, che ne sapeva lui? Le mie storie d’amore sono tutte grosse e sono abbastanza impegnative. Rimandiamo.
Alla prossima allora. Grazie
Commenti recenti