ANTONIO PRETE
su “Salentudine”
Una festa della lingua
Salentudine è un’unica sequenza scandita in strofe compiute: insieme movimento ritmico e micronarrazioni che hanno rifrazioni e diffrazioni di senso, allusioni e sovrasensi. Non è la filastrocca il modello di riferimento sonoro e stilistico, ma piuttosto la diceria popolare, un suo modo insistente e fantasticante, che mira a caratterizzare il costume e le bizzarrie degli abitanti del paese vicino: un funambolesco e irridente e divertito paesaggio umano.
La ricerca linguistica ed espressiva, o sperimentalmente espressionistica di Nadia Cavalera, ha qui un balzo verso la memoria d’infanzia che porta con sé, come primo solido incontro, la lingua materna. Quella lingua, cioè, dove corpo e memoria si annodano in una dizione che vuole essere anch’essa ritrovamento di un tempo e di un paese annebbiati dalla distanza, resi improbabili, un poco onirici, ma allo stesso tempo guizzanti di una loro vita. Nella ritrovata lingua materna la lontananza si può mostrare come sorriso di un’infanzia nella quale si sono depositate voci, e in quelle voci figure stralunate, gesti ammiccanti, notiziole e rappresentazioni pettegole e strane. Con quella lingua, che sale dalle case di un paese, dalle sue strade, ritorna il gioco altalenante della ripetizione infantile, del freudiano Fort-Da che si fa andirivieni della rima, ritorno della strofe, ma anche incantamento e fissità che esorcizza una mancanza, in questo caso ciò che di un paese, della vita di quel paese, ma anche dell’infanzia, è per sempre perduto.
Nc’era… L’apertura favolistica di ogni strofe presto abbandona l’incantamento e accoglie l’ ironia, cioè la distanza affettuosa da un mondo di gesti e abitudini e storielle, un mondo che torna con una lingua che è suo respiro e sua sostanza, una lingua senza la quale non potrebbe vivere. Nella ripetizione una quotidiana vita di povertà, stretta nei suoi usi, nel suo piccolo cerchio, si mostra attraversata, per compensazione leggera e funambolesca, da improvvisi lampi d’immaginazione, dall’ammiccamento dei doppi sensi, dal registro basso, dall’umore che ha ventagli vasti di fantasticherie. La toponomastica dischiude una geografia umana animatissima, incantata e sboccata, mordace e sapida. L’alfabeto dei paesi diventa, di strofe in strofe, un universo di gesti, di caratteri, di leggiadre o perverse abitudini, di invenzioni grottesche e parodossali e carnevalesche. Maghi, nani, ciechi, folletti, monaci, calzolai, muratori, santi, donne di piacere o di devozione: una mappa di figurine sull’uscio delle case, un parlare continuo osservato dall’alto, come sporgendosi da un magico pallone aerostatico che sorvoli paesi e colga dappertutto tic e gesti e usanze.
Ma la festa popolare qui è soprattutto festa della lingua: il nome di un paese, aprendo e chiudendo la strofe, sventola in aria verbi desueti, aggettivi dimenticati, proverbi surreali. Il viaggio di Nadia Cavalera nel Salento è un viaggio della memoria e una danza della lingua.
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