Bibliografia Libri — 21 Gennaio 1992


Nadia Cavalera
Vita Novissima
Supplemento al n° 5/6 di Bollettario (maggio-settembre 1991)
La tiratura è di 333 esemplari numerati
pag. 110
£20.000
Stampato presso ”Stampanti Mucchi” s.p.a., di Modena

 

 

RECENSIONI

Il pastiche linguistico di Vita Novissima
Mario Lunetta
Bollettario n°22/23

I.
Le esperienze più audacemente estreme del Novecento letterario occidentale, da Chlebnikov a Dada a Joyce a Beckett, respingono il linguaggio come mummificazione scritta paga di sé una volta per sempre, per investirlo di primarie funzioni di valore fonico e mimico. Ne esaltano insomma, profondamente, la gestualità. Lo vivono come evento comportamentale, in un’autonomia autologica che ne trascura la convenzionalità semantica e ne esalta l’animalità e l’energia biologica. U parola poetica è epìfanica. È una realtà che non deriva la propria forza di convinzione dalla mimesi del reale, ma si legittima in quanto apparizione inattesa, che contiene in sé non soltanto le strutture della ragione organizzatrice, ma – insieme, e allo stesso livello di intensità non gerarchizzabile – le pulsioni del fisiologico, del corporeo, della sensualità insomma, in tutta la sua estensione e spessore. Ciò implica, d’abord, da parte di chi usi linguaggi non sublimatorî, id est da parte di chi si ponga nei confronti dei materiali con un atteggiamento di assoluta sfiducia verso la salvaguardia dell’aura, una strategia di critica dell’economia Poetica che ne azzeri gli equivoci diffusi (comprensibilità, comunicatività, leggibilità, trasparenza immediata in ordine a un common sense “permissivo”, regolamentazione dell’arbitrio etc.).
Chi muore d’estasi, si guardi dal risorgere, avvertiva qualcuno. Il problema, quindi, anche in poesia, è non abbandonarsi all’estasi: per non morire linguisticamente. Si potrebbe dire, in questo senso, che la poesia è una pratica del sospetto e una produzione di diffidenza permanente. Perciò, una messa in guardia del lettore. Un segnale d’allarme contro l’assuefazione all’apaisement della cattiva quotidiancità della lingua: id est, del pensiero. Il quale, come ricordava Tzara, “nasce in bocca” – notazione non di intenzione spiritosa ma di convinzione materialistica. Così, “nello specchio della lingua si riflettono spesso i genitali degli uomini”, osserva nei suoi Pensieri spettinati il polacco Stanislaw J. Lec. Insistendo, poi, molto correttamente: “difendere l’arte? No, costringerla all’attacco”. All’attacco di cosa? Ma naturalmente, di quell’apaisement che è il nemico numero uno dell’immaginazione, dell’azzardo, del rischio di tutti i linguaggi non garantiti, che non si appiattiscono sulla Koiné della comunicazione dominante ma operano in contropiede muovendosi su geometrie non prevedibili e su ottiche straniate.
Si sa di quali guasti si sia resa responsabile ai danni di tante tènere anime in quest’ultimo ventennio la ri-sublimazione della scrittura poetica, di volta in volta furbescamente camuffata sotto diversi – ma consonanti – abiti di scena. Sempre, comunque, la supremazia celebrativa dell’io poetico vi è apparsa il dato persistente più clamoroso, quello che un cacciatore non intruppato come Adriano Spatola liquidava sprezzantemente dicendo che “si può parlare di sé con un linguaggio impoverito e dolciastro la cui pratica mi pare sconsigliabile”.
La voga dei postmoderno, che a parere di chi scrive non è – i suoi apologeti si affannano a dimostrare – il superamento in termini finalmente non settari del moderno, e la sua definitiva mise à mort, ma in realtà l’uso conservatore e mortuario dei codici vitali del moderno in una fase storica in cui la filosofia del Mercato Selvaggio è parsa (illusoriamente) vincente anche sul terreno della cultura oltre che su quello dei rapporti socio-economici, mostra ormai tutte le sue crepe (e le sue crèpes di plastica): né pare poi troppo convincente neppure la nozione di “postmodernismo critico” che certi gruppi giovanili hanno di recente avventurosamente inalberato.

II.
Ma in tutti i casi, il quadro della poesia di questi anni ultimi mi pare mosso, interessante e capace in certi casi di coniugare invenzione e consapevolezza. Sto parlando delle generazioni anagraficamente meno usurate, a una delle quali appartiene per es. Nadia Cavalera, leccese, per la precisione galatea, operante a Modena, che ha al suo attivo I Palazzi di Brindisi (Schena, 1986), Amsirutuf. enimma (Tam Tam, 1988), ha diretto la rivista Gheminga, ha fondato con Sanguineti Bollettario, e ora si presenta con Vita novissima, che raccoglie testi composti tra il 1981 e il 1991.
Cos’è che sorprende e convince in questa raccolta molto poematica? La distanza giocosa e drammatica dalla parola, che è sempre, assai vitalisticamente, gestualità e pronuncia, mimica e suono: una distanza che lavora a fisarmonica, dilatandosi in apertura massima o contraendosi fino a far corpo con la scrittura-materia, nel senso di un coinvolgimento istrionico e insieme durissimo, intransigente e leggero fino al vocalizzo. In tutto ciò, naturalmente, lo spazio della sapienza retorica occupa tutto lo spazio delle pulsioni, ne distilla succhi e veleni comme il faut, con la naturalezza di chi ordina (mentre li scompagina) gli assetti di una plurilingua che fa oscillare (anche follemente, e comunque sempre al livello del delirio) il proprio ago sui diversi piani della dispositio, senza soluzione di continuità. Il gioco di Cavalera presuppone, in sede linguistica, il pastiche; e in sede metrica, il verso ipermetro, che sviluppa un’estensione già di per sé (anche spazialmente/ graficamente) antilirica, e invece drammatico-narrativa. La scrittura, così, consta di svariate “scritture’ , preesistenti in zone assai distanti tra loro (prelievi da considerazioni letterarie di specie teorica; lacerti di dottrine filosofiche; frammenti di saggi storici; affermazioni politiche), oltre che di mescidazioni continue e “pazze” di lingue morte e vive, il latino il greco l’italiano aulico e corrente, il francese l’inglese il tedesco, con l’aggiunta molto perentoria, e in qualche caso protagonistica, di espressioni in dialetto salentino, e l’inserzione bizzarra – in chiave ludico-fragorosa – di neologismi e barbarismi in repetitio fortemente assonàntica. Il capriccio sempre ben sorretto da -una griglia tecnica robusta presiede così a questa raccolta, sulle cui varie e dissennate giostre trascorre veloce e imprendibile l’inwgo di ‘ una Lulù (anzi, lulú, per la precisione), che tanto richiama la wedekindiana Lulu, e funziona come intermittente controfigura dei poeta che, vocandola, si rivolge in realtà a se stesso: “a me tu non sia mai uguale lulù: è l’augurio migliore che ti possa fare mentre / qui torturo trattur’abbandonat’assetati per farne vial’alberati dove la / riformagraria non c’è mai arrivata (la luna segnava i segni nei pegni d’un / canto: solo un canto)”; e ancora: “ah lulù rispetto a quanto prima non ci credere (: si fa per la rima) nzartika pure con le tue sperticate gambe strambe rott’a stozze struncunisciata in bozze e / binche cozze lasci’anz’un folco solco anche folclo ruspa vispa la via… “. E ancora, in un’orgia di asindeti, anadisplosi, citazioni, ossimori, paranomasie, la quale è andata crescendo nella seconda parte del libro (che non si riferisce necessariamente agli anni più recenti, essendo la disposizione volutamente casuale): “si lulleva lulù au débout pour la soubrette che rampant lapinette avec le sotttillet’in dépliant e il guardo fritto lassivo entro le palle d’omne oculo fiso avait bien servi oubliant sul moment ma mirette e musette…”
C’è anche, naturalmente, in Vita novissima, l’autobiografia: come titolo vuole: ma usata quale deposito di materiali frantumati, da spazzare via con gaudio e furore anziché da elevare agli altari secondo i decrepiti decreti della versificazione autocelebrativa. E c’è l’eros, un eros sbarazzino, corporale, materico e intriso di humor che subisce -giustamente- analogo trattamento: “petra ch’arretra m’impetra e m’impietra nella biolca d’una polca dinamo gl’occhi tuoi che sprangano come clava e sono già lava tento un duck è subito / un drop e in dribbling passo alla punta e tacco m’a te m’attracco grisou che m’ardi sempre più in sovrappiù cheppiù vedestù”. Insomma, una poesia giocosa che si prende gioco anche della propria giocosità: e perciò sfora nel cupo, nell’enragé, dei tragicomico feroce. Una poesia impacificabile, e a suo modo maudite, nella sua funamnolicità da scoiattolo, nella sua gestualità ubiqua, nella sua oralità infine, che parla e straparla, e irride al mondo e a se stessa, e si mette in abisso nell’istante medesimo che si specchia in uno speglio deformante.
Così, ancora una volta, di fronte a un’opera così convincentemente vitale, ci si conferma come il lavoro sperimentale produca insieme i suoi morbi e suoi anticorpi, e sul loro rissoso equilibrio realizzi la propria vita precaria: la sola, credo che valga la pena di difendere, oggi, in tanto insopportabile scialo di patetico e di elegiaco soddisfatto di sé. La lingua si salva soltanto nel massacro, e solo gli armistizi la uccidono. Nadia Cavalera lo sa, con la sua bella energia: e la lingua, nella confusione delle lingue di Vita novissima, le rende grazie graziosamente.

Accademia Platonica, agosto 1992

Poesia e conoscenza nei testi di Nadia Cavalera
Francesco Muzzioli
Bollettario n°22/23

Se la poesia ha da essere, mediante i propri “specifici” mezzi, una forma di conoscenza , sarà necessario scrutare attentamente, valutare, forse scartare, molti degli atteggiamenti più invalsi fino a oggi e ancora oggi. E non solo quelle pretese di illuminazione epifanica, connessc nel senso comune alla nozione stessa del 1irico”, le quali, quanto ad apporto conoscitivo -e sebbene aspirino a fare nella poesia una forma di conoscenza “superiore”, ma proprio per ciò staccandola dalla comune conoscenza umana- si affidano a un’intuizione che, volendosi immediata ed extraconcettuale, finisce per restare al palo delle impressioni scontate, delle associazioni più facili, e dei fantasmi mentali più radicati. Ma anche l’idea che attraverso il veicolo poetico si trasmetta esperienza, dove si restringa all’ambito dell’esperienzi individuale, e quindi -come spesso accade- del “vissuto”, affidando al testo la registrazione, di fatti e eventi (foss’anche psicologici), finisce per restare nell’ambito di una informazione priva di mordente riflessivo e critico, ancora con ripristino di “aureola” sul capo del soggetto poetante, la cui biografia -questo il messaggio implicito- si eleva a poesia in factis. Ma pure quando si volesse demandare al poetico la riflessione sulle “cose” (le cose di tutti, le cose collettive), si accalcano i rischi di scorciatoie, di semplificazioni scorrette, e quindi di una conoscenza distorta: perché l’assottigliarsi della consapevolezza nella “specificità” (tutta storicamente determinata, certo, ma non per questo trascurabile) dei mezzi poetici, può condurre quella istanza di riflessione a un semplice “riflesso”; demanderemmo allora al testo.
Non di reagire alle cose, ma di conoscerle solo passivamente, con l’essere un passivo indice (sociologico o, al massimo, sociolinguistico) dell’esistente. Certo si tratta di conoscere le cose attraverso le parole: ma occorre, nello stesso tempo, l’autocoscienza poetica della distanza delle parole dalle cose (soprattutto quando le connoti lo stigma del l’appartenenza letteraria).
È quest’ultimo l’atteggiamento costitutivo della poesia di Nadia Cavalera. Le parole sono spinte verso le cose, anzi, sono trattate esse stesse come cose, nel manipolarle e nel disporle. Nello stesso tempo non sono spogliate dei segnale della letterarietà: ma questi segnali (che nelle vesti poetiche tradizionali servono alla riconoscibilità, per distinzione e prestigio, quindi valgono a distaccare le parole dalle cose) vengono tesi al massimo, accentuati fino all’estremizzazione, finché non si rivoltino contro se stessi. Del resto, a una ripresa estremizzata della tradizione allude il titolo stesso, nel far diventare la vita nova una vita novissima – Ed estremizzata è, infatti, in primo luogo, l’omofonia. Quella ripetitività dei suoni, sulla quale la poesia ha fondato la sua aria di autonomia separata (secondo la nota teoria jakobsoniana, nel ripiegarsi e richiudersi del messaggio sul messaggio medesimo) viene condotta, nei testi della Cavalera, a conseguenze radicali. Non più quell’equilibrata distribuzione in fine di verso, come nel procedimento tradizionale della rima, ma il ritorno omofonico si reitera in spazi brevi, si fa sequenza ravvicinata senza impedimenti di sorta: serve non all’inquadramento dei materiale verbale, ma alla concatenazione, alla aggregazione o, forse meglio, alla associazione delle parole. Infila (e infilza) schidionate di parole, in quantità per forza di cose non illimitate (anche se ha l’aria di non voler smettere più), e tuttavia esagerate ed abnormi. Un effetto-eco: ma di più, qui: un effetto di rimbalzo, di rimpallo, di ripercussione. Che inzeppa le parole (‘fitte infitte e trafitte”), non peritandosi -se del caso- dal deformarle pur di includerle nella serie: così, nella sezione 21, 1 “onore”diventa “salvito” per contagio da “garantito”. La serie procede in tensione irregolare, toccando il suo proprio fondo solo nell’esaurimento e nel cambio di passo che dà inizio a una nuova catena basata su altre sillabe-guida. Questo procedimento, che non è certo l’unico, ma -altrettanto certamente- è il più eclatante ed esibito, quello che subito colpisce l’orecchio (e anche l’occhio) di chi si accosta alla poesia della Cavalera, mette in luce la “spinta” che sottende il tessuto verbale. Una spinta, una furia sonora. Da intendere non solo nella chiave psicoanalitica di un ritorno del rimosso piacere fonatico infantile (o, nella versione alla Orlando, di un”ritorno nel represso formale” nella letteratura), ma soprattutto -come io credo- da prendere come nodo per entrare in contatto con l’energia somatica “materiale” che il testo vuole trasmettere.

Ora, l’associazione per somiglianza di suono dovrebbe condurre all’equiparazione delle parole, all’indistinzione delle differenze di rango nel regno verbale. E tra l’altro nel senso dell’equiparazione agisce anche l’impostazione metrico-strofica della poesia della Cavalera: il suo verso tipografico, che poi non è neanche più un verso vero e proprio, essendo la mera risultante dell’inquadramento del testo nella misura della pagina (e dunque l’unica unità è il “riquadro”). E si aggiunga la latitanza della punteggiatura (non del tutto assenza, dato il ricorso ai due punti, curiosamente inseriti in parentesi, però) che, lo si intuisce, annulla le possibili gerarchie e subordinazioni sintattiche.
Eppure l’esito è diametralmente opposto a quello di ogni possibile monotonia. Se è vero che la poesia della Cavalera ricorre spesso alle figure della danza, e spesso scatenata, non solo “balletto” ma anche “trescone” e “ rumba”; se può capitare perfino che ballino le “manette” (in quella che sembra, nel richiamo agli attuali avvisi di garanzia, una allegra rivincita della legalità a lungo posta in non cale), è nel suo insieme che questa scrittura non lesina mezzi per movimentarsi in mosse e passi acrobatici.
Dunque, proprio nel momento in cui tutti gli elementi della tessitura assumono il paritario valore “elementare” che si è detto (di elementi, appunto, di una sintassi aggiuntiva), tanto più possono memergere -ed essere giocate in vario modo, a seconda dell’accostamento nella sequenza- le divergenze del significato. Lo scarto dei livelli e dei registri può esaltarsi. Ed avranno luogo incontri fortuiti e sorprendenti, prossimi all’assurdo surrealista, come -ad esempio, tra i vari possibili- quel “vicario che cavalca il ricino del dromedario” della sezione 51. Le parole, apparigliate fonicamente, proprio per questo rivelano con maggior forza le loro disparate provenienze. Lo scarto del calembour può appoggiarsi sulla sostituzione di un minimo componente, basta una lettera o quasi, per ottenere, ad esempio, “un mazzo di rose e suole”, oppure ‘l’olio di ficino”. Ma il gioco di parole può anche scattare per una sorta di associazione indebita, che si inserisce nella frase -a partire da una parte comune- per deviarne il corso previsto; ed avremo “veng’ai tuoi pie’ (à terre)” e ” osanna nell’alto soppalco dei cieli”.
Il materiale, che così si viene stipando, ha la più varia provenienza. La molteplicità delle lingue, il plurilinguismo, abita fino in fondo questa poesia, e la percorre in lungo e in largo, sotto la spinta di una sintassi che non è semplicemente paratattica, ma a “climax” o, per meglio dire, a “rilancio”. L’antico e il moderno si susseguono e mescolano (ma con le dovute scintille) in vertiginosi passaggi. C’è forte escursione tra i livelli, nient’affatto un pacifico dialogo. Nell’affollarsi delle lingue straniere si insinuano i termini entrati nell’uso al seguito delle merci della loro réclame: un linguaggio che si presenta con la patina dell’aggiornato, ma rivela subito, nel suo concitato aggiungersi, la vera anima di fatuo kitsch pretenzioso. Ma a questo versante, dove si suggerirebbe la compresenza di tutti gli spazi (il cosiddetto “villaggio globale”) e il mescolamento ad libitum dei frammenti linguistici, ormai etichette di un consumo planetario; a questo versante -dicevo- fa da controcanto la misura personale, una sorta di particolare pronuncia, che mastica le parole, e soprattutto n’e sbocconcella i margini, con elisioni di apostrofi. Far fuori i confini costituiti della parola significa additare tendenzialmente il superamento della parola nella frase: e non a caso l’invenzione neologistica lavora a produrre composti come, nella sezione 7, “saltellanfanando” e “titilvellico”, quando non proceda -inversamente, ma non in senso opposto- a scavare i confini interni della parola (come accade al termine ‘allucinazioni’, sezionato e interpretato nelle sue componenti in “ad-lucem-azioni”, nella sezione 88).
La pronuncia, per quella sua tonalità dialettale -sia che si giovi di asprezze gutturali (quali “lakku” e “ffoku’), sia che ottenga per aferesi spericolati inizi consonantici (“ddurmisciutu” e “ncarognutu” restringe il linguaggio in un lirnitato spazio localistico: e tuttavia, come il lessico straniero non funziona da semplice indice sociologico ed anzi è, strictu sensu, la parodia dell’aggiornamento, così questo, della pronuncia e della tonalità dialettali, che fa la voce un po’ barbara, da parlante extraculturale, non addita minimamente paradisi originari da raggiungere per i binari della nostalgia ritornante, ma piuttosto si pone come segnale di irriducibile resistenza della singolarità (e di una “masticazione” del corpo della parola) proprio contro l’invadenza mercantile del linguaggio-calderone, della mescolanza e contaminazione postmoderna di tutto con tutto. I materiali citati recano le cicatrici degli strappi, i residui insorgono. Il testo si offre non solo alla constatazione dei linguaggi che ci attraversano nel presente (che sarebbe una funzione di attestato informativo), ma reagisce all’universo verbale attuale mettendolo in contraddittorio, anche, con la lingua morta del passato, con le radici della parola lirica (lo stesso titolo indica un rapporto con la tradizione, sia pure esasperato). La tradizione, appunto, lei che dovrebbe essere del tutto trasparente e inavvertita perché consistente nell’opera stessa di mediazione, si legge invece in segni pesanti che marcano scarti, menzioni, frammenti inarticolati. Di parodia si tratta, certamente, quando le donne per eccellenza letteraria (“beatrice e laura”, nella sezione 74) sono attirate nel cerchio del gioco e la stessa vena amorosa con il suo aire euforico (e l’avocazione dell’altro) si trova impicciato -se non piomba- nei piani bassi dell’ “osé porna”, di una ironizzata focosità; e tuttavia parodia non leggera, non superficiale, ma piuttosto tesa a strappare le residue energie dei modelli messi sotto esame.
A ciò concorrono effetti di contrappeso. Non solo il prosaico della attualità materiale, ma anche brani di andamento prosastico di classica riflessione filosofica vengono a interrompere le concatenazioni sonore, e quindi aiutano a guardarle dall’esterno. Conoscenza per contrasto e per antitesi, dunque, condotta in un ritmo che rilancia sempre in avanti la frase poetica, ma secondo un’intermittente direzione di innalzamento e abbassamento del tono. Ora è lo stesso io che prende a salire ( magari, come nella sezione 54, sullo slancio di futuri “creativi”: «baccherò… barcherò … bargellerò … bombicerò, ecc.) o si proietta oggettivandosi in un alter ego di sesso opposto a quello dell’autrice (mentre il soggetto femminile è collocato fuori, nella fantomatica -e mitica- inerlocutrice Lulù); ora, invece, si impaluda nel dispersivo. L’io è chiamato “ad alte mete” e subito dopo coinvolto in “sprechi”. Ritmica della conoscenza: qui la ragione interviene sulla materia, lì la materia sopravanza la ragione.
Di questo procedere fanno parte integrante e costitutiva le parentesi (pronte a moltiplicarsi al quadrato e perfino al cubo in parentesi dentro parentesi): le parentesi rappresentano le possibili diramazioni del testo, le linee di fuga ipoteticamente aperte, le membra applicabili al corpo testuale centrale. La presenza dei due punti all’inizio delle frasi parentetiche dimostra che esse costituiscono le coordinazioni eventualmente praticabili. In un certo senso, quindi, sono le alternative. E come tali compaiono soprattutto in finale di brano (quella la loro sede deputata e pressocché immancabile). È nella fase conclusiva che il testo si rivolge ai modi che avrebbe potuto praticare: ciò viene a costituire una caduta (un “anticlimax”) della spinta euforica del caricamento poetico. Questa spinta, infine, urta e si ammorza contro un materiale altro. Non per niente, a controcanto finale, si trova o la considerazione materialistica o la riflessione filosofica, di cui poco sopra si discorreva. Così come dev’essere la logica del calembour, che strappa senso là dove non andrebbe cercato, cioè nel gioco dei suoni; e che, perciò rischia di lasciarsi andare nella facilità di una automatico perpetuo “scioglilingua”, trova termine nella tournure sentenziosa, in cui viene terminalmente ancorata al linguaggio messo al lavoro attorno al pensiero.
Le parentesi sono come i diversi strati del lavoro linguistico. Queste complessità e contraddittorietà del testo rimandano al confronto con la linea dell’avanguardia, che l’autrice stessa mostra di tenere presente nella titolazione del suo libro, con quel “novissima” che non è soltanto, come si è detto, una prostensione del “nova” dantesco, ma anche un esplicito omaggio all’esperienza dei “Novissiini”. Sulla possibilità di una ripresa -con tutti gli accorgimenti del caso- dell’avanguardia letteraria il dibattito si è recentemente riacceso, soprattutto attorno all’antologia Terza ondata (curata da Filippo Bettini e Roberto Di Marco), in cui, tra l’altro sono compresi anche testi di Nadia Cavalera. Uno dei migliori interventi in merito, quello di Guido Guglielmi (ne L’Unità del 26 aprile 1993) sottolineava il fatto che ormai non è più in questione, nell’avanguardia, l’originalità a tutti i costi, quanto la verifica della «produttività storica di una linea critico-sperimentale». Anche nel caso della Cavalera, l’originalità si costituisce non nell’invenzione dell’assolutamente “nuovo” (in anni in cui il “nuovo” finisce per essere sbandierato da trasformismi di dubbia risma), ma nella scelta -quella sì inedita e decisamente controcorrente- di una posizione linguistica, e non solo linguistica, da cui organizzare il flusso delle parole: facendo affrontare criticamente gioco e lavoro, ironia e ragionamento. L’invenzione verbale (le ‘frottole” di cui si dice alla sezione 3) deve rendere “pallottole” duramente polemiche, cioé agire in senso antagonista in duplice versante, all’interno delle incrostazioni del soggetto e all’esterno delle abitudini dei pubblico; e ancora: all’interno delle forme letterarie e all’esterno delle idées reçues. Unificare (e vivificare), come scrive la Cavalera, “1’esplosivo con ‘implosivo corrosivo”.
Concludendo, i testi di Nadia Cavalera ci offrono un ottimo esempio di conoscenza critica svolta attraverso le immagini del linguaggio. Vedere, per prova, quale sorte vi abbia una delle celebrazioni ufficiali degli ultimi tempi, quella dello scopritore dell’America Colombo (alla sezione 85). Demitizzato dalla stessa eco dei rimbalzi sonori (stretto a sandwich tra le rime parodistiche con «aplombo» e «zombo»), l’eccellenza dello scopritore è rigirata nella testarda negazione della scoperta. Il plurilinguismo che qui si assiepa ‘ compreso ovviamente) lo spagnolo, mostra già, in proiezione, l’effetto di restrigimento del mondo che verrà poi. Ma intanto, dietro l’avanzata delle bandiere del moderno (e ancora, in particolar modo, per virtù di parentesi), se ne rivela la crudeltà sanguinaria. Non è l’oltrepassatempo del post-, ma l’opposizione dell’anti-: la «supernova era», cui oggi inneggia lo spreco consumistico, è piegata nei risvolti negativi. E il suo eroe messo in “doppio” con brusco passaggio da «alfiere» a «pompiere»: riportato in basso: rivelato nella casualità inconsapevole: inchiodato, per inciso, al suo ruolo reale.

Roma, Agosto 1993

 

 

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