di Nadia Cavalera
In una terra che già dal primo Novecento apprezzava i gabinetti tradizionali, concepiti interamente, secondo Jun’ichirō Tanizaki nel suo saggio Libro d’ombra (1933), «per il riposo dello spirito», vedere, in piena pandemia l’apertura a Tokio, in alcuni quartieri residenziali, di 15 bagni pubblici, firmati con grande umiltà da architetti molto famosi, è stato un avvenimento accolto con grande interesse. E tale che lo scrittore e produttore Takuma Takasaki a fine maggio 2020 ha invitato Wim Wenders ad andare a vederli. Per lo spunto di qualche iniziativa. Un lavoro fotografico? Un documentario? No, i luoghi, era convinzione di Wenders, non bastano a colpire l’immaginario e sfidare il tempo. Ci voleva un racconto e decise di farne un film. L’ha scritto, in seguito, a Berlino, a quattro mani con lo stesso Takasaki (che ne sarà anche il produttore). Dopo aver individuato una storia e sapendo già l’attore che l’avrebbe impersonata (Koji Yakusho aveva dato subito il suo assenso a scatola chiusa). Per Wenders averlo in mente era una condizione indispensabile allo sviluppo della sceneggiatura, “cucita” su misura. E alla quale ha contribuito anche la moglie Donata che, con l’aiuto di una sua piccola troupe e una location scout giapponese, ha girato e si è montata da sola le sequenze di sogno contemplate dal copione.
Quanto alla musica, nessuna partitura strumentale. Wenders si è affidato alla colonna sonora della sua vita, tra gli anni Sessanta e Settanta: The House of the Rising Sun degli Animals, Perfect Day di Lou Reed, (Sittin’ On) The Dock of the Bay di Otis Redding Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, Redondo Beach di Patti Smith, Walkin’ Thru The Sleepy City dei Rolling Stones, e tanti altri, oltre al brano di The House of the Rising Sun, nella versione giapponese scritta da Maki Asakawa.
Nasce così Perfect Days diWim Wenders, girato in 16 giorni e nelle sale dal 4 gennaio di quest’anno. Racconta la vita metodica, sempre uguale di Hirayama, un uomo addetto alla pulizia dei bagni pubblici di Tokio. Vive in una zona della working class con viuzze strette e case di legno. In un quartiere di minuscoli caffè, ristoranti al banco frequentati dalle solite persone, solitarie come lui; la libreria che vende a un dollaro Patricia Highsmith; il bagno turco, la lavanderia e una cara amica ogni giovedì. La sua giornata si svolge in perfetta routine (tranne piccoli diversivi) tra il suo lavoro fatto con estremo scrupolo e le sue passioni: piante, libri, fotografia e la musica in vetuste cassette degli anni ’60-’70, ascoltate nel suo furgoncino.
Hirayama ha un passato borghese alle spalle e ha scelto volutamente questa vita semplice nel paradosso della solitudine che gli regala un “incontenibile senso di sicurezza”, per dirla col Wenders di Falso movimento. E ogni giorno quando esce da casa, all’alba, guarda il cielo per ringraziarlo con un sorriso. Quello che non nega a nessuna delle persone con cui entra in contatto. Anche agli alberi (soprattutto una quercia) davanti i quali fa la sua pausa pranzo e che fotografa, affascinato dal «komorebi», la visione dei riflessi del sole tra le fronde degli alberi. Le stesse che senza colore ritornano nei suoi sogni oscuri, con scene dell’infanzia, quale inquietante controcanto da pagare per la loro rimozione di giorno.
Il messaggio che ne ho tratto? La vita è quella che è, va accettata con gioia ed entusiasmo seguendo le nostre inclinazioni nel rispetto degli altri, e qualsiasi lavoro ha la stessa dignità in quanto va visto non come la nostra realizzazione, ma come contributo alla vita in comune cui siamo tenuti per vivere insieme. Ecco il culto del bene comune, sparito dopo il lockdown in Europa e altrove, si è, per Wenders, rinvigorito invece in Giappone. Dove non si vive «ognuno per sé», ma «ognuno per gli altri».
Una immagine del film di Wenders che ritorna più volte
Hirayama non è un pulitore di cessi (attività che esercita come fosse un’opera d’arte, «kata»), ma un uomo buono e sensibile, pieno di interessi e di saggezza zen che, dacché ha compreso la preziosità della vita, la nostra unicità nell’esperirla, ha deciso di goderne ogni attimo. Prima che fugga. Lontano dal flusso metropolitano, gioisce di ogni piccola cosa in un presente assoluto, che grida felice in bicicletta alla nipotina fuggiasca che è andata a trovarlo: «Adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta». E lo conferma nella risata finale (al volante della sua vita si direbbe più che del suo minivan), che si trasforma quasi in un pianto. A ricordarci la dualità tra felicità e tristezza di ogni esperienza, ma anche la zona d’ombra che permane in ogni tentativo di acquisizione di senso.
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