Critica News Selezioni — 18 Febbraio 2013

Su “PAGINE”, Anno XXII, N.67, maggio-agosto 2012 (uscito in gennaio 2013)
Nadia Cavalera poeta ospite con  la recensione di Francesco Muzzioli su “L’astutica ergocratica”

 

POESIA ALLE PRIMARIE
di Francesco Muzzioli
Nadia Cavalera, L’astutica ergocratica, Novi Ligure, Joker edizioni, 2011

Si è fatto un gran parlare di democrazia, negli ultimi tempi, a proposito e a sproposito, compresa la versione modificata ad hoc del discorso di Pericle, che ha riempito la rete (tra l’altro, Pericle è un rappresentante scelto molto male, lui decisionista e manipolatore, se solo si rilegge Tucidide…). Ci voleva una poesia per rimettere le cose a posto. Anzi un poemetto: L’astutica ergocratica di Nadia Cavalera, scritto originariamente per l’antologia Poesia a comizio ed ora proposto in libro, con il corredo di dodici traduzioni in diverse lingue, del CD della versione sonora con musica e della prefazione di Daniele Maria Pegorari (Joker, 2011). Nadia Cavalera non è nuova all’impegno politico e sociale, nella sua rivista “Bollettario”, dalla vita più che ventennale (ora concentrata nel libro Corso Canalchiaro 26), ha promosso più volte pronunciamenti e dibattiti sui temi civili e culturali. Qui, però, c’è qualcosa in più, c’è l’elaborazione di un vero e proprio programma, sia pure pronunciato con il lasciapassare della “lingua speciale” della poesia, eppure molto più chiaro e netto, c’è da scommettere, di quelli che ci verranno ammanniti nelle tornate elettorali prossimamente venture.

Il poemetto si muove sulla spinta di una vibrante polemica sulla situazione presente di degrado etico ed economico, stigmatizzando la cecità di una prospettiva che, preoccupandosi solo di salvaguardare il proprio tornaconto per l’indomani, ha perso di vista qualsiasi costruzione del futuro e ha demandato la cabina di guida nelle mani avide di «politici politicanti», fino al «godurioso risultato» ormai evidente: «guardate come siamo ridotti». E però la lamentazione dei mali attuali lascia subito il campo a una discussione terminologica. Qualcuno potrebbe dire: ma come, sistemati come siamo, ci mettiamo a sofisticare sulle parole? Ebbene sì, l’igiene linguistica è proprio ciò che ci è mancato nel ventennio delle vociferazioni e delle promesse sloganistiche, dei venditori e dei ciarlatani. E quindi bisogna tornare alla radice, alla radice etimologica. La stessa formula “politica democratica” – su cui tutte le parti concordano e di cui vantano la perfetta realizzazione – va va messa sotto il fuoco della lente attenta del sospetto. Nadia Cavalera riporta giustamente i termini “politica” e “democrazia” al loro atto di nascita, ossia all’etimo greco, rispettivamente da polis e da demos. E per tal via scopre che la pratica che dovrebbe garantire il benessere e la felicità di tutti, nasce ab origine marcata dal segno dell’esclusione e della parzialità. La polis esclude l’astu, il popolo lavoratore: «chi liberamente in pianura per campare / non aveva alcun bisogno della sua intermediazione imposizione / (: era mercante agricoltore pescatore comunque autosufficiente autonomo lavoratore)». Il demos, a sua volta, non era proprio quella volontà collettiva che si potrebbe immaginare: «senza donne schiavi e meteci a governare erano i soliti proci». Rimettere le cose a posto, vuol dire per Nadia ripartire dal lavoro (dalla produzione, tanto bistrattata in epoca postmoderna a favore del consumo) e mettere il lavoro al posto delle caste e delle lobby. Il vantaggio di tutti al posto del vantaggio di pochi. I termini della “politica democratica” si rovesceranno correttamente, allora, nella astutica ergocratica.

Una volta rimessa a posto la base, diventa possibile stilare un programma ragionevole che – anche se qualche anno è passato dalla prima stesura del poemetto – appare ancora decisamente attuale. È un programma che si attiene al principio dell’uguaglianza. Provo a riassumerne i punti: 1) criterio di livellamento delle retribuzioni; 2) criterio di rappresentanza dei parlamentari con responsabilità verso gli elettori; poi, una volta eliminate caste, clientele e conflitti d’interesse: 3) statalizzazione «risanata»; 4) «ripristino del welfare»; 5) snellimento delle procedure; 6) incentivi all’istruzione; 7) lotta alle mafie e alle nuove schiavitù; 8) libertà di culto senza privilegi. Un programma estremamente semplice, elementare e, come dicevo, ragionevole (talmente ragionevole da apparire utopico); un programma da sottoscrivere in pieno, e anzi proporrei di valutare i futuri programmi ufficiali tanto migliori quanto si avvicineranno a questo (se ci si avvicineranno, purtroppo c’è un “se” molto grosso…). Del resto, per quanto lucidamente consapevole di trovarsi in una «piazza di carta», Nadia Cavalera non rifugge dal parlare di «manifesto» e addirittura avanza una anticipata candidatura alle primarie (battendo sul tempo i Vendola e i Renzi): «mi candido all’ambita direzione del partito democratico di prossima fondazione». Ironicamente, of course, però spesso l’ironia è un modo per dire cose molto serie.

Sento un’obiezione: ehi, un momento, cosa sta succedendo? Dopo la magistratura, adesso anche la poesia si mette a supplire la politica? Beh, non ci sarebbe da stupirsi, è certamente una situazione in cui si devono concentrare le forze. E però: la poesia non si dimette dalle sue funzioni proprie nel momento in cui accetta di farsi discorso diretto e di enunciarsi addirittura come programma? Una autrice come Nadia Cavalera, nata e vissuta nell’area dell’avanguardia, si è forse oggi ricreduta passando dal discorso difficile al discorso chiaro e tondo? Non sarebbe l’unico caso (penso al Pagliarani di Conferenza dibattito sulla questione meridionale o a un certo Sanguineti): l’avanguardia è propensa agli estremi e quindi potrebbe benissimo alternare il predominio del significante con il predominio del significato, scartando la via mediana (il compromesso moderato) del discorso suggestivo, patetico e liricizzante. Tuttavia, nel caso qui in oggetto, la soluzione è un’altra. Per quanto in alcuni casi della sintesi programmatica per punti io abbia potuto effettivamente citare direttamente il testo, la discorsività de L’astutica ergocratica è di tipo affatto particolare. Nessun politico di certo parlerebbe così. Non solo Nadia Cavalera non abbandona affatto alcuni procedimenti avanguardistici come l’annullamento della punteggiatura (restano talvolta i due punti, però messi anticonformisticamente dopo l’apertura della parentesi); ma realizza un verso lungo per niente prosaico, un verso lungo ritmato e segnato dell’insorgere di rime interne, ben fedele quindi al principio del rimbalzo sonoro che ha guidato la sua sperimentazione fin da Vita novissima. Ora, le analogie dei corpi verbali, lo sappiamo, indicano l’utopia del gioco, la liberazione dalla servitù dell’utilizzo pratico del linguaggio. Ma qui c’è qualcosa di diverso, anche perché siamo ormai al di là di un periodo in cui la “libertà” è stata un’altra parola trabocchetto, un’altra parola vischiosa e rischiosa. E infatti il gioco deve per forza, in questo testo, collegarsi con il lavoro che è la base portante del programma ergocratico. Dunque, i rimandi rimanti contribuiscono al lavoro del testo e l’allegria dei significanti si fa allegoria (Nadia Cavalera ha proposto recentemente la formula del superrealismo allegorico). Precisamente allegoria della prospettiva ugualitaria: le parole, infatti, sono messe sullo stesso piano quando vengono accoppiate in base all’identica terminazione. Del resto, in un’opera che propone la collettività come valore, nulla può rimanere fine a se stesso, così come nulla può risultare squisitamente estetico. E allora nell’esecuzione vocale-musicale possiamo vedere l’impulso della poesia a uscire dai suoi limiti verso il teatro e l’“arte totale”; e nel moltiplicarsi delle traduzioni – in tutte le lingue possibili, europee e non, per finire ai dialetti, modenese e galatonese, dei due luoghi di vita dell’autrice – nelle molteplici traduzioni, dicevo, possiamo vedere una inesausta diffusione del testo nonché la riprova della istanza universalistica che sottende il “come potremmo vivere”, ovvero il discorso ragionevole dell’utopia.

Di questi tempi, in cui la poesia se ne va in tutti i sensi ridotta a desolante pratica privata, appare davvero sorprendente questa assunzione di responsabilità, questa scommessa di senso, nonché questa assunzione del bene comune come l’unica cosa di cui torna conto parlare.

Roma, settembre 2012

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