News — 10 Giugno 2010

Claudia Manuela Turco, recensione di Spoesie

su Literary nr.6/2010

Spoesie: un titolo che fa subito pensare alla prosa o a una poesia “altra”, un titolo che tiene insieme gli opposti, la prosa e la poesia, per la raccolta da poco uscita, per i tipi di Fermenti Editrice, di Nadia Cavalera. Un libro che, sino alla fine, è all’altezza delle premesse e delle (possibili) promesse. Vladimir Majakovskij scrisse: «Io non sono avvezzo a vezzeggiare l’orecchio con la parola»… Nemmeno la poetessa modenese lo è, come dimostrano le sue Spoesie.
In questo volume sono radunate poesie scritte negli anni 2006-2009. Sono tutte datate e, a parte poche eccezioni (al 25 novembre 2007 fa seguito il 10 novembre 2007 e poi si riparte dal 12 settembre 2007; al 14 marzo 2008 fanno seguito il 7 aprile 2006 e il 15 aprile 2005 (sic!), e poi si riparte dal 14 luglio 2008), vengono presentate al lettore in ordine cronologico. Luogo di composizione: Modena, Palazzo Bentivoglio (con una sola eccezione: Praga, Hotel Kafka per “L’inverno di Praga”). La punteggiatura è ridotta a qualche parentesi e ai doppi punti, che insieme compongono uno degli stilemi dell’autrice.
Nadia Cavalera prende le distanze da certa avanguardia:
«Il Futurismo
una delle tante fallimentari avanguardie
misogino guerrafondaio
dentro e fuori il gruppo
tutto frufru e niente gropp’arrosto». Per lei «L’avanguardia è incomprensibile. Ma non nel senso di illeggibile, ma in quanto non può essere compresa nel progetto economico esistenziale di chi stabilisce le regole del nostro vivere». (Nell’Introduzione) Mirella Serri sottolinea che: «Solo attraverso la provocazione avanguardistica si conquistano nuove dimensioni emotive»…«Tra cabaret, tecniche avanguardistiche, sorprese, fluire dell’automatismo linguistico come in un testo dadaista o surrealista»…«icastica, incandescente, questa parola. Che si sforza di sottrarre al consenso, alla vacua unanimità chi si adegua al “branco” per riportarlo al “mondo”, alla “vita” della poesia».
A ciò si possono ricollegare anche alcune considerazioni di Edoardo Sanguineti: «Il problema, allora come oggi, e oggi certamente più che allora, è quello di sviluppare a fondo le pulsioni anarchiche che sono alla radice, inequivocabilmente, di tutta la grande antipoesia di questo secolo che muore, portando tali pulsioni dal terreno della rivolta al terreno della rivoluzione.»…«si tratta pur sempre, come si diceva anche allora, e come sarebbe bene tornare a dire anche oggi, io credo, di cambiare la vita, e di modificare il mondo».
Riguardo alle nuove dimensioni emotive cui accennava Mirella Serri e per quanto concerne i mezzi più consoni per esprimerle, ritorna utile rispolverare quanto scritto da Ingeborg Bachmann in Letteratura come utopia: «La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori». Con tali considerazioni si allinea pure la concezione avanguardistica di Nadia Cavalera.
Nelle Spoesie la parola poetica ingaggia battaglia con la realtà circostante, confinando l’autrice (che si fa portavoce di chi non ha voce), ma solo apparentemente, ai margini, poiché non è della sua intimità che recano tracce questi segmenti di versi.
La parola, calata nella sua dimensione poetica, trascende quanto descrive e cattura, nel tentativo di risvegliare le coscienze sopite, evidenzia dati incontrovertibili, palesi ma elusi, è inizio d’azione rinnovatrice.
“Cana in sanguine” è la prima (S)poesia in cui ci imbattiamo: e già quel che ci si poteva aspettare viene stravolto: «Altro che nozze»…«invalidi calidi di vita avidi»…«non è vino d’acqua questo che scorre
ma sangue d’innocente fonte».
A nessuno piace la guerra, si dice, ma allora perché ancora strade si riempiono, come vasche, di sangue? Perché ancora mutilati, di ogni età, nel nostro tempo, come in un quadro di Otto Dix?
L’uomo ha dimostrato di non aver capito (o di non aver voluto capire) il significato profondo della storia, ma il poeta può essere ancora, se non la sua coscienza, almeno il suo sprone: «La storia deve essere terapeutica e rinverdire» (p. 38); «la storia deve avere un compito terapeutico» (p. 66).
La poetessa, tra le urla e la martellante scure, mitraglia brandelli di realtà sulla carta: di nuovo i diritti umani barbaramente violati. Ella cattura ulteriori Guernica. Trapana ogni bersaglio, centrando persino il più mobile.
La maggior parte di questi versi è dedicata alla degenerazione e corruzione della classe dirigente, principale responsabile del degrado diffuso. Con lo scempio politico, l’agonizzare della cultura e la parità ancora irreale di donna e uomo, come cittadini. L’abusivismo edilizio, i problemi della scuola, l’immondizia di Napoli, il discutibile comportamento dei sindacati…
Comunque, «l’infelicità va sottoposta a critica»: i responsabili hanno nomi e cognomi, volti precisi.
L’attenzione si concentra anche su argomenti a torto ritenuti minori e che sono emblematici di una situazione più grave di quel che può sembrare: «Il Dalai Lama in visita in Italia
è stato da tutti ignorato
eppure è il capo d’un importante religione
e per i Tibetani anche dello Stato
(: i silenzi sono impastati di loglio)». In quest’ultimo caso, un esempio di punta aforistica che può distaccarsi dal resto, all’interno del tessuto prosastico che contribuisce ad alimentare i segmenti dei versi (cfr.: «la mancanza di etica pubblica si specchia nell’individuale
e spunta nella difficoltà la verità naturale»; «la conoscenza ha bisogno della coscienza che la rappresenti»).
In “Nadia Cavalera, forza della natura e della poesia”, l’Introduzione di Mirella Serri, leggiamo che in queste pagine: «Il nuovo soggetto poetico è ferito, torturato, consapevole di essere stato oltraggiato e umiliato: ambisce così» a “Toghe pulite”, «discute dell’accordo per una legge elettorale»…«si indigna» per il precariato…«Volge anche un ironico appello alla Sinistra nel 2007».
Vittorio Alfieri scrisse che: «Hanno i re la corona, altri la testa», e si soffermò pure sulla confusione esistente, ai suoi tempi, tra i termini “tiranno” e “re”: confusione dei nomi e, quindi, delle idee che, per certi versi, si ripropone ancor oggi. Al centro di tale equivoco, nel caso italiano, il termine “premier”.
Ma non è solo Berlusconi a venire preso di mira nelle Spoesie: anche chi l’ha votato viene messo con le spalle al muro, non può sfuggire alle proprie responsabilità.
L’attuale situazione politica italiana ha precedenti non esaltanti, l’autrice ne è consapevole.
Luciano Bianciardi, ne La vita agra, osservava che: «La politica… ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere». E Corrado Alvaro disse che: «La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». Parole, queste, quanto mai applicabili alla odierna situazione italiana.
La trasformazione in seconda repubblica alimentava ampie speranze di rinascita.
I Modena City Ramblers, nell’album Riportando tutto a casa, così commentavano il brano intitolato “quarant’anni” (“l’Italia dei cattivi”), lasciando un segno di quel periodo di grandi attese: «A forza di suonare rebel songs, siano irlandesi, della resistenza o degli anni ’70 in Italia, si finisce per guardare al regime che ci si ritrova con una certa insofferenza. Quello italiano degli ultimi “Quarant’anni”, poi, è particolarmente arrogante, stupido e crudele. Dedicato ad una prima Repubblica che cade a pezzi, sperando in una seconda un po’ migliore».
Ma l’inganno non tardò a svelarsi.
Che, in passato, la situazione politica italiana non andasse molto meglio, è una consapevolezza che non può essere di grande aiuto o consolazione. Ne “L’anemia” Nadia Cavalera pare riassumere tutte le possibili considerazioni di tal genere con due semplici versi: «la sconfitta nei tempi scritta
è sempre più dura».
Nel trattare argomenti politici, rispetto al poeta, il songwriter può sembrare privilegiato, favorito, disponendo di altri canali per poter giungere al pubblico.
Un esempio: i settant’anni di politica italiana trasferiti in canzonetta da Rino Gaetano, rivissuti attraverso Aida: brano che ripercorre la storia di una donna e dei suoi amori, di cui molti ignorano il contenuto, apprezzandone, invece, l’orecchiabilità.
Ai giorni nostri il “poeta” Samuele Bersani, nonostante sia autore difficile, continua a raccogliere successi: «A Bologna i portici tengono in piedi le case
hanno i reumatismi e le artriti di braccia operaie
Fingono di non sentire o di non sapere
chi sta prendendo la città a calci nel sedere»…«sembra Varsavia a due ore dal colpo di stato».
Già è difficile proporre la poesia al lettore contemporaneo, Nadia Cavalera non si pone un compito facile, fondendola con la passione politica.
Éugene Jonesco affermò: «Viviamo sotto la dittatura dell’informazione politica e dello sport. Nessuno più parla dell’uomo, dell’arte: solo politica e sport. Inoltre, siamo vittime dei banchieri, del denaro, mentre la sola salvezza dell’uomo è l’arte».
E Isaac B. Singer, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, disse che lo scrittore o il poeta non può essere un semplice predicatore di ideali politici, bensì deve intrattenere lo spirito del lettore in modo completo, consentirgli di elevarsi, consentendogli quella fuga che la vera arte offre sempre: la noia non è ammissibile.
È vero che non di rado la poesia politica può apparire meno spontanea e poco emozionante, artificiosa ed enfatica. Spesso ne sono stati evidenziati i “limiti” perché il contenuto pare sovrastare (e soffocare) la forma.
Ma Nadia Cavalera ha trovato il giusto equilibrio tra forma e contenuto anche trattando l’argomento da molti ritenuto impoetico per eccellenza, assumendosi, a pieno carico, le responsabilità sociali dell’artista, senza risultare mai noiosa.
Come l’interesse per la massa non esclude quello per l’individuo («Ci confinano a branchi sempre più ampi
arrendevoli variegati e stanchi»…«chi non può rovesciare nemmeno un pattume
figuriamoci il mondo sbilenco»), il contenuto politico non annulla l’interesse per lo stile, né l’autore che, anzi, come un fotografo sceglie l’inquadratura, il soggetto, la luce, i dettagli sfuggiti alle maglie dell’attenzione, la visione d’insieme… E tanto altro.
Persino chi ritiene che la politica sia un argomento impoetico può venire conquistato da queste Spoesie. Del resto, «va fatta la distinzione tra le idee dell’autore e i contenuti
dell’opera stessa». E occorre rammentare che, in realtà, non la politica ma «Il poeta è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha identità, è continuamente intento a riempire qualche altro corpo: il sole, la luna, il mare e gli uomini e le donne, che sono creature d’impulso, sono poetiche e c’è in loro qualcosa d’immutabile, ma il poeta no, non ha identità, è certamente la più impoetica di tutte le creature di Dio», come scrisse John Keats in una lettera datata 27 ottobre 1818.
Non solo la politica, comunque, trova spazio in questo libro: «quanto vuoi mio beau gigolò?»; «Ma quando scoprii la montagna
fu il ver’incanto
e lungo tanto il canto manto e vanto»; «Gli alberi come i minerali i sassi gli animali»…«ora li stanno ovunque massacrando in condiviso genocidio
[(: folle inconsapevole suicidio) mi parli di dio ma dov’è finito?]»
E, in queste pagine, viene ospitata pure una riflessione sulla poesia: «Per essere poeta non basta infilare
pailettes parole versi lustrini rime brillantine
Ci vuole»…«la tua personale unica croce
da offrire agli altri in umil’utile condivisione».
Questi versi talvolta recano immagini che possono soddisfare anche esteti esigenti, mentre ai giochi di parole vengono accordate finalità molteplici: «quando i pastori torneranno alle anime?
(: gatti e cani mordono le code alle comete)»; nel “porto di Brindisi” «La colonna romana
che vedova puntella il pelo del cielo»; ne “L’inverno di Praga” «La città è spaccata (: spacciata)
metà incantata immobile passata
con insetti nello zucchero
ragni magni nelle vetrine opache
con merce antiquata polverosa superata»…«Praga impaga la primavera è lontana
per te l’inferno d’un inverno senza ritorno
con tutti noi a scorno contorno».
La poesia di Nadia Cavalera non è di semplice denuncia: essa mira a un cambiamento effettivo della realtà circostante. Pertanto, è anche propositiva: «La vera non violenza
è rispettare finalmente il proletariato
violentato per definizione nei secoli dei secoli», ella dice. Vladimir Majakovskij replicherebbe: «Ogni nemico
della classe operaia
è mio vecchio
ed acerrimo nemico.
Ci ordinarono
di andare
sotto la bandiera rossa
gli anni di fatica
e i giorni d’inedia.
Noi aprivamo
ogni tomo
di Marx,
come in casa
propria
si aprono le imposte,
ma anche senza leggervi
noi comprendevamo
  • da quale parte andare,
in qual campo combattere.
Noi
la dialettica
non l’imparammo da Hegel».
E la poetessa, sempre aderente al dato reale, ammette: «temo il cinismo l’astensionismo», poiché, come osserva M. Frisch nel Diario d’antepace: «Chi non si occupa di politica, ha già preso quella decisione politica che voleva risparmiarsi: serve il partito al potere».
Nadia Cavalera, analizzato lo scenario contemporaneo, sui vari versanti, vede le possibili soluzioni: «Il PD ha scelto il moderatismo
e ha perso
ora deve urgentemente ricompattare la Sinistra
e ignorare le proposte indecorose
da chi mai gli regalerà rose». E «Se il popolo ha votato un tale capo
il popolo è malato
va curato
con l’informazione costante puntuale
va educato».
Soprattutto «Non bisogna trattare con ch’infanga
a raffica la storia d’Italia già malata». Qui l’autrice pare fare eco a Sofocle (Antigone): «Chi rispetta le leggi della sua terra
e la giustizia giurata agli dei
innalza la sua città; la distrugge invece
chi si dà al male,
cedendo alla tracotanza.
Non si sieda con me allo stesso focolare
né abbia le mie stesse idee colui che così agisce».
Spartaco, ai giorni nostri, potrà ancora spezzare la catene e marciare contro l’oppressore. Se lo vorrà.
Dopo un percorso di lettura così articolato, non rimane che sottolineare come Spoesie sia un’opera di quelle che non si dimentica (alcuni, da tale esperienza, usciranno irritati, non condividendone l’impostazione di fondo), un’opera che fa rispolverare altri libri, altri mezzi di espressione, un libro capace di tenere desta l’attenzione del lettore non solo sulla carta, ma anche (e soprattutto) nei confronti di quanto lo circonda, alimentandone lo spirito critico.

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