Blog News — 21 Gennaio 2012
Milano, scorcio dalla casa di Vincenzo Consolo,
Milano, novembre 1992
Vincenzo Consolo (1933-2012), foto di Nadia Cavalera,
Milano, novembre 1992
Vincenzo Consolo (1933-2012), foto di Nadia Cavalera (Milano, novembre 1992)

Vincenzo Consolo, da un’intervista inedita rilasciata a Nadia Cavalera (novembre 1992)
 […]Sì stavo dicendo di una prima stagione milanese, ho fatto l’università qui. Ero venuto a Milano proprio attratto dal mito di Vittorini perché in quegli anni c’era Vittorini a Milano, che non conobbi. Ero molto timido e non ebbi il coraggio di andarlo a trovare, di telefonare; comunque quando capii che volevo fare lo scrittore me ne tornai in Sicilia dopo la laurea, perché pensavo che era mio dovere stare lì, per raccontare la Sicilia di quegli anni e soprattutto dal punto di vista storico sociale diciamo, raccontare la realtà siciliana sullo schema di Carlo Lev… del “Cristo si è fermato a Eboli” e sono tornato. Mi sono messo a insegnare nei paesini di montagna, feci il militare prima, poi mi misi a insegnare. Però man mano che andavo avanti  negli anni questa realtà che volevo insegnare, stava profondamente cambiando. Questa realtà mi stava sparendo sotto gli occhi, siamo tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, stava avvenendo il grande esodo dei contadini siciliani nel caso mio, ma  di tutto il meridione verso il nord industriale, questa grande trasformazzione. Quindi mi trovai in grande imbarazzo perché vedevo una realtà sociale che mi spariva sotto gli occhi insomma. Feci in tempo mentre stavo giù in Sicilia a pubblicare il mio primo romanzo, che si chiama “La ferita dell’Aprile”, pubblicato da Mondadori nel ’63, e dopo decisi di fare le valigie e di tornarmene a Milano perché volevo vedere questa realtà in grande trasformazione, volevo viverla e cercare di raccontarla insomma. E quindi mi trasferii a Milano nel 1968. Senonché quando arrivai qui… tutti sappiamo che cosa significa il ’68 a Milano… insomma, mi trovai in pieno rivolgimento sociale, negli anni della grande contestazione sociale, gli anni dei conflitti sociali con tutto quello che accadeva e provai una sorta di spaesamento, perché era una realtà che io non conoscevo e quindi mi mancava il linguaggio di questa realtà industriale, insomma mi mancava la memoria. La stessa cosa si è potuta verificare se mi è permesso… insomma l’ha subita Giovanni Verga molti anni prima di me. Verga che era stato a Firenze, aveva scritto dei romanzi cosiddetti “mondani” e poi nel 1872 si era trasferito a Milano e trovò una Milano in completo cambiamento, in grande rivolgimento: c’era la prima rivoluzione industriale, la città si stava ingrandendo, sorgevano nuove fabbriche e quindi anche Verga subiva una sorta di spaesamento e di crisi creativa anche, perché capì che non poteva più scrivere come aveva scritto sino ad allora e quindi fu costretto a tornare alla memoria della Sicilia della sua infanzia insomma. Ecco quella è la ragione per cui cade,  che lo fa diventare instabile. Così Verga incominciò a diventare quello che noi conosciamo, quello che fece quella grande rivoluzione linguistica, e non solo linguistica, con le prime novelle, “La vita dei campi”, “Novelle Rusticane”,  e poi con  i “Malavoglia” Proprio perché fu costretto a tornare memorialmente alla Sicilia, poi vi si trasferì anche fisicamente diciamo. E io subii la stessa cosa, perché poi rimasi in silenzio per quasi 13 anni insomma, dal primo al secondo libro, e quindi anch’io capii che per tornare a scrivere dovevo tornare alla mia memoria dell’infanzia, alla  Sicilia, alla memoria storica, al mio linguaggio, e quindi poi scrissi il mio secondo romanzo, di tipo storico-metaforico, che voleva rappresentare l’Italia degli anni Settanta, però lo feci metaforicamente,  scrissi anche il “Sorriso dell’ignoto marinaio”, di cui lei ha visto lì alcune tracce della mie ricerche storiche di quegli anni. E infine poi  rimasto qui , dal ’68 in poi, e la mia scrittura ha sempre seguito questo tema della ricerca storica; i miei sono quasi sempre romanzi storici e quindi, come ci ha insegnato Manzoni, romanzi storici che sono metaforici perché altrimenti non sono romanzi, ma diventano delle storie romanzate. Quando i romanzi storici sono senza metafora, non vogliono rappresentare il presente. Solo raramente mi è capitato di scrivere sull’attualità, sul presente; l’ho fatto con un libro che ha pubblicato Mondadori che si chiama “Le pietre di Pantalica”, dove ho raccontato i miei viaggi in Sicilia, però in una prosa completamente diversa da quella che io uso nei miei romanzi storici, proprio perché il tempo mi obbliga ad usare un registro linguistico diverso da quello che uso normalmente quindi quando parlo dell’attualità la mia prosa si fa molto più comunicabile, diciamo, ecco…[…]

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