DISEGNI di Gianni Toti: l’intelletTVuale e COOPywriter
DACIA MARAINI
Sono molti anni che non vedo Gianni Toti e mi dispiace di averlo perso di vista. Il ricordo che ho di lui è legato alle sue mani, sempre in moto, sempre pronte a costruire qualcosa di nuovo e di sorprendente. Aveva mani da operaio, pur essendo un intellettuale. Mani da artigiano e per quello credo si appassionasse tanto alle nuove tecniche comunicative, che mettevano in moto qualcosa di fisico e di riconoscibile, mentre la poesia rimane così arcaica con la sua antica musica delle parole!
Mi dispiace che sia morto. Anche se non ci vedevamo da anni, sapevo che c’era e che avrei potuto rivederlo, magari per farmi spiegare cosa sono queste nuove diavolerie a cui lui si appassionava, ma sempre con ironia, senza fanatismi.
Onore a Gianni per la sua onestà intellettuale e la sua straordinaria curiosità del mondo.
PAOLO GUZZI
Ho conosciuto Gianni Toti molti anni fa, ai tempi di Carte Segrete, la Casa Editrice che tanti poeti di ricerca ha pubblicato e che tanti dibattiti ha organizzato nei lontani anni Sessanta e successivi. Mi intimidiva, come mi intimidiscono ancora tutti coloro che stimo e che, in fondo, considero migliori di me. Gianni era fluente negli interventi orali e nei testi dai versi sesquipedali e nei neologismi che tutti conosciamo. Si poneva già allora, cioè negli anni Sessanta, il problema della lettura dei versi ad alta voce e dinanzi ad un pubblico, lettura che andava intensificandosi e raggiunse generale diffusione negli anni Ottanta- Novanta, sino ad oggi, in cui va complicandosi e articolandosi con altri supporti. Poi ci fu il periodo molto intenso della video arte, riconosciuta e apprezzata più all’estero che da noi. La morte della moglie, e specialmente la perdita quasi totale della vista, lo indebolirono progressivamente, nonostante i suoi coraggiosi tentativi di mostrarsi e di parlare ancora in pubblico. Gli demmo il premio Orient-Express, lo vedemmo alle letture di Via Giulia, ma sempre più debole, sempre più allarmato per la perdita della vista.
Una volta, ad una lettura, commentò un mio testo che avevo appena letto dicendo che si sentiva, ascoltandolo, ascoltandomi, come a casa sua. E questa concessione che mi fece di appartenenza ad un gruppo, ad una linea di cui lui faceva parte, mi inorgoglì, ricordo, e me lo rese più vicino.
Addio Gianni. Paolo
MARIO LUNETTA
Addio videopoeta nella giungla dei linguaggi (l’Unità 9 gennaio 2007)
E così, in quattro e quattr’otto ci ha lasciato un altro dei rari, insostituibili intellettuali-poeti di pensiero forte, quant’altri mai alieno da debolismi filosofici, derive patetiche e paramisticismi vari, oggi tanto di moda. Gianni Toti da Roma: di lui stiamo parlando. Di un partigiano che nell’Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemtontese dice di sé: «Tenente del corpo di Volontari della libertà è il grado della sua pensioncina di mutilato della Resistenza». Del mio fraterno amico Gianni, col quale chi scrive ha realizzato, non solo attorno alla rivista Carte Segrete (da lui fondata nel 1967 insieme a Domenico Javarone) e al Sindacato Nazionale Scrittori, tutta una sfilza di moderate follie, come dire: di indispensabili assennatezze. Gianni è stato un indagatore onnivoro delle lingue e dei linguaggi: redattore e inviato speciale in diverse testate del Pci (da l’Unità a Vie Nuove al settimanale Lavoro), saggista, traduttore di letteratura francese e spagnola, cineasta con la regia del lungometraggio… e di Shaùl e dei sicari sulla via di Damasco (Italnoleggio, 1973), cui seguirono Alice nel paese delle cartaviglie e altre incursioni intelligentissime in territorio telematografico, sconfinando infine, a cavallo degli anni Ottanta, nel dominio delle arti elettroniche (Per una videopoesia, Tre videopoemetti, la Trilogia majakovskiana, la video-PoemOpera SqueeZangeZaùm – dove alita il fantasma di Velemir Chlebnikov – cui è andata una ricca messe di riconoscimenti internazionali in prestigiosi festival: Stati Uniti, Messico, Francia, Svizzera, Italia). Toti è stato anche un attivissimo organizzatore e coordinatore di mostre e rassegne poetroniche in molti luoghi del mondo. Anche di questo è fatta la multilingua totiana che ha attraversato i continenti di cultura e invenzione con inesausta capacità di generosa dépense, sempre animata da una curiosità vigile e tagliente che nell’ultimo ventennio dell’esistenza di Gianni aveva aggredito con gli strumenti della poesia anche l’area assai mobile della nuova fisica, come sta a testimoniare un libro di grande, intensa sottigliezza, che è Strani attrattori (1986).
C’è, non dopo ma tra le maglie di questa sorta di dispersione concentrica, la scrittura del poeta e quella del narratore: di qualcuno cioè che nella nostra letteratura di secondo novecento ha costituito un’anomalia reale, perché la sua polimorfìa incessante ha sempre lavorato non sull’ambiguità ma sulla contraddizione. Come dire che la sua prassi letteraria, in versi o in prosa, privilegia la metonimia contro la metafora a livello linguistico, e il disordine pianificato contro l’elegia a livello ideologico. Un disordine, il suo, che per esempio in un libro come Chiamiamola PoeMetànoia (1975) non esoterizza la parola, non frantuma e deregola i nessi sintattici, non aliena i significati per riuscire a piccole o grandi sublimazioni, così gratificanti per la maggior parte degli autori italiani della sua generazione, ma al contrario strumentalizza tutte queste operazioni al fine di realizzare un continuo straniamento critico, una lucidissima dialettica degli opposti. È per questa via, accidentata e sgradevole, che Toti penetra nella giungla dei linguaggi secondo una furiosa attitudine manieristica e un gusto divertito del paradosso, adoperando tutte le tecniche e mescolando tutti i livelli, con freddo cinismo e una bravura tanto spericolata quanto regolata duramente dalla sua sapienza inventiva: per poi uscire dalla giungla e rientrarci, in un gioco di dentro-fuori di straordinatria libertà, nella finzione del come se, mentre sa (sappiamo) benissimo che il mondo è qualcosa di assolutamente non ipotetico, e schiaccia tutti gli ottativi: e brucia e uccide, con fuoco e guerra reale.
Un altro titolo decisivo è, nel campo della poesia totiana, Per il proletariato, o della poesicipazione (1977), libro nel quale la lingua sembra quasi liquefarsi in un riso contagiosissimo, lieto e impudente ma di tratto in tratto assai duro, sarcastico e oppositivo, impegnato in «cento e una lotte (con lingua e la notte)». Così, quasi spensieratamente, il poeta Gianni Toti attraversa in questi testi di inesausto sperimentalismo, con una sorta di schidionata, tutte le avanguardie, per affondare le proprie radici nella formidabile tradizione barocca, gongorista, marinistica. «E se ti chiedi che lingua è questa / ti taglio la lingua e la getto dalla finestra».
Il discorso non muta, anzi si fa se possibile ancora più estremistico nel secondo (e maggiore) dei due romanzi totiani: Il padrone assoluto (Feltrinelli, 1977), in cui il dato allegorico informa di sé ogni interstizio del respiro narrativo. Un respiro che non dà tregua, non rappresenta, non fa resoconti ma allestisce scenari radicali del tutto deprivati di speranza e di risarcimento che non siano storici, terrestri, costruiti dall’onestà intelligente dell’uomo. Il «padrone assoluto» della vita è la Morte: ed è contro la mercificazione di essa – inevitabile conseguenza della vita ridotta a pura merce – che il gran libro di Toti muove senza pietà la macchina mortale della sua scrittura. Una macchina complessa e stratificata, i cui ingranaggi sono continuamente lubrificati da un altissimo potenziale di pensiero dinamico, e chiedono al lettore un impegno gnoseologico e insieme «politico» di forte tenuta. Sì, perché Toti è stato, nella sua magnifica esistenza di materialista e di comunista senza dogmatismi (ma naturalmente con orgogliosi risvolti ideologici, prima e dopo la cosiddetta «caduta delle ideologie», formula che appare sempre più risibile e miseranda), nella ricchezza del suo darsi e del suo partecipare, nella cocciutaggine del suo polemizzare, nella reiterazione pignola dei suoi principi, nel suo generoso disperdersi infine, uno straordinario intellettuale-politico: della razza di cui, oggi più che mai, si sente il bisogno. Il suo occhio inventivo è stato sicuramente pari per acuminatezza al suo occhio sociale. Il suo amore dell’avventura teorico-pratica sicuramente pari alla sua indipendenza, dentro il corpo dell’«intellettuale collettivo» che si provava a cambiare l’orrore del mondo.
Gianni amava la vita, viveva la politica, aveva una percezione animale e un’ironia contagiosa. Non sopportava che la bellezza della terra venisse così canagliescamente dissipata. Sapeva essere furioso e dolcissimo, gioioso e tragico, proprio come la sua scrittura e la sua poetronìa. Sapeva, come Leopardi, che «la materia sempre vince». Per questo, Gianni, ho la certezza che il tuo corpo, anche quando sarà solo polvere, continuerà a vivere del suo trasformarsi e del suo produrre memoria attiva in tutti quelli che leggeranno i tuoi libri e vedranno i tuoi videopoemi. Addio.
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