Nadia Cavalera
SPOESIE
2006-2009
Roma, Fermenti, 2010
€10,00
INTRODUZIONE
Nadia Cavalera, forza della natura e della poesia
Mirella Serri
Una vera forza della natura e della poesia, Nadia Cavalera. Poetessa già a 20 anni e capace di fare della sua passione politica e letteraria un’arma contundente. Faceva scalpore e metteva a rumore, la giovane Nadia, Lecce e dintorni (è nata a Galatone), militando negli anni universitari contro la corruzione e il malaffare dello scudo crociato. I suoi strumenti di lotta non erano solo i cortei, le occupazioni, gli scioperi e i comizi, ma anche la parola poetica. La scrittrice, che oggi vive a Modena, brandiva pure l’arma della dialettica laureandosi in filosofia all’Università del Salento e discutendo la tesi “Democrazia e socialismo nel giovane Marx”, una tematica che per alcuni decenni appassionò a lungo gli studiosi. Ma a Nadia lottatrice, nonché “Incantatrice” – come recita il titolo di una sua poesia di questa ultima raccolta “Spoesie” – non di serpenti ma di parole, le soluzioni offerte dalla speculazione filosofica e dalla politica risultavano scarne, insufficienti, limitate. Eccola così indossare gli abiti di novella surrealista, pronta a fare di due parole un solo slogan: “‘Cambiare il mondo’, ha detto Karl Marx, ‘cambiare la vita’, ha detto Rimbaud”, sosteneva Breton nel suo impeto politico letterario, facendo suoi i due slogan. Questa finalità di unire in uno solo i due fonemi, “mondo” e vita”, non l’abbandonerà più: la Cavalera la perseguirà attraverso la lirica. Quali i suoi strumenti? Per prima cosa fonda Gheminga, la prima rivista esclusivamente letteraria di Brindisi. Ma, poi, spingerà ancora di più sul pedale della scrittura che stima capace di incidere e di rovesciare il senso comune, impegnandosi, con il poeta Edoardo Sanguineti, nella direzione del quadrimestrale di scrittura e critica, Bollettario, (organo dell’associazione culturale “Le avanguardie”). Una scrittura di guerra, questa di Nadia, che propugna un’avanguardia permanente, non elitaria ed aperta al concetto di “umafeminità” (che veda finalmente l’uomo e la donna pari nella differenza). E così ecco il travolgente “Superrealisticallegoricamente” (Fermenti editore), scoppiettanti opere verbo-visive, composte di lunghe sequenze ininterrotte e di parole apparentemente in libertà. Dove non mancano i riferimenti filosofici e psicoanalitici come in “Io sono Io” eclatante ed ironico inno al narcisismo imperante. In “Spoesie” la Cavalera cambia radicalmente il registro poetico per sostenere un verso più prosastico e più urlato, per alzare i toni, per esibire sarcasmo e indignazione. È un grido che viene sollecitato dallo scenario politico culturale che la Cavalera si trova intorno. E che non più si appaga del “vuoto nuovismo linguistico […] Un pericolo questo che va scongiurato così come va individuata e bandita la simulazione, di un linguaggio nuovo, oggi tanto diffusa e banale. Cerchiamo l’uomo nuovo. Coltiviamo la sua diversità: sarà conseguenza inevitabile la diversità del linguaggio” (così sostiene nel 1996, la Cavalera in “È necessario un chiaro progetto alternativo”, intervento al Convegno “Avanguardia e comunicazione”, poi in Bollettario n.19/20). “L’uomo nuovo” che ispira nuovi linguaggi lo troveremo sui campi costellati di morti del conflitto tra palestinesi e israeliani come in “Cana in sanguine” (“donne bambini molti invalidi di vita avidi/ Io son Alì anchilosato all’ultima fermata disperato/questo è mio fratello di morte sorte a me legato”). Lo rintracceremo nelle pieghe dei diritti umani negati: “lo scontro è un’opzione al vaglio/dei diritti umani particolari/in ambienti militari”; tra le vittime della guerra tra religioni, come ricorda nella poesia “Siam tutti” sollecitata da un articolo sul Manifesto, riferito al sanguinoso evento di “Tre cristiani sgozzati nella città di Alì Agcà”. Il nuovo soggetto poetico è ferito, torturato, consapevole di essere stato oltraggiato e umiliato: ambisce così a “Toghe pulite” (“la magistratura/isolata diffamat’incerottata minacciata/ quando non comprata ricattata/col cappio al collo senza possibile ritorno”); discute dell’accordo per una legge elettorale (“che rimandi subito all’elezione per lui aurale/ non è una trattativa ma una trappola incallita”); si indigna: “del lavoro precario semi di rosario in calvario/ dei salari ai minimi europei/dei pubblici disservizi/ dell’amministrazione inconclusa/della politica onerosa sprecona profusa”. Volge anche un ironico appello alla “Sinistra” nel 2007: “ (Dio non mi fulmini per questa parola che vogliono desueta fola)/ con una maggioranza risicata al senato/ deve restare unita/ fedele al suo progetto/ ma accondiscendente a quello degli alleati/ il massimalisminfantilismo/provocherebbe la caduta della maggioranza/ e precipiterebbe il paese/ tra le piovre di una sfacciata danza truffaldina/ di chi usa il popolo/ come ignorante scalino meschino/ di sue corse ricorse bolse al botteghino”). E colpisce sarcasticamente gli elettori di Berlusconi “tu che l’hai votato/ prima s’è assicurato l’impunità da ogni reato/ con l’anticostituzionale lodo alfano (:all’eguaglianza dinnanzi alla legge/ non può sottrarsi neppure il capo dello Stato!)”. Mette sotto tiro con il suo sberleffo il leader del Pdl: “cavalcando l’inflazione a sbafo/per qualche tesoretto privato/ ogni settore lavorativo ha silurato… Ci pensi almeno ora a che cosa hai combinato/ tu che l’hai votato?”. Un leader che “invita alla responsabilità/ che nel suo vocabolario privato/significa/ adeguarsi alla sua volontà”. La poesia della Cavalera vuole sondare tutte le possibilità semantico formali, trovare le corrispondenze, le aporie, imbarcarsi su percorsi molto individuali attraverso la provocazione avanguardistica (“l’avanguardia è incomprensibile, scriviamolo pure sugli striscioni, tappezziamo di volantini le strade, facciamolo gridare agli strilloni ad ogni angolo di città. L’avanguardia è incomprensibile. Ma non nel senso di illegibile, ma in quanto non può essere compresa nel progetto economico esistenziale di chi stabilisce le regole del nostro vivere, che se ne abbia coscienza o no”, osserva la scrittrice nell’intervento già citato). Solo attraverso la provocazione avanguardistica si conquistano nuove dimensioni emotive, come specifica in “Senti amico”: “Senti amico che continui a scrivermi e chiedermi/ …per essere Poeta non basta infilare/paillettes parole versi lustrini rime brillantine/ ci vuole il macero dentro dello spiazzamento/ l’affondo chiaro lento nell’emozioni”. Non servono “rime brillantine” per sollecitare sussulti, emozioni, sconvolgimenti come quelli che segnano le poesie erotiche e che solo un linguaggio adeguato può portare alla luce (“E’ ormai quadriglia l’amor sciolto da briglia e orsù ballanzé mio fiancé ancor meco facciamo ponte”) oppure in “Ungimi” (“Ungimi di parole al sole frottole nuove questa crespa pelle ipotiroidea ikea”) oppure ancora in “Lingua” (“Linguami la lengua longa la milonga”). Tra cabaret, tecniche avanguardistiche, sorprese, fluire dell’automatismo linguistico come in un testo dadaista o surrealista, e l’attenzione costante al mondo che ci circonda, la Cavalera riesce così in un originale mix sperimentale a dar voce a una modernissima poesia di ribellione e di rivolta. Una voce veramente solitaria, la sua. Segnata da riflessioni ermeneutiche, e capace, al contempo icastica, incandescente, questa parola. Che si sforza di sottrarre al consenso, alla vacua unanimità chi si adegua al “branco” per riportarlo al “mondo”, alla “vita” della poesia: “Ci confinano a branchi sempre più ampi/arrendevoli variegati stanchi/ in pascoli di sugna fallace pugna”.
RECENSIONI
L’argot poetico di Nadia Cavalera
Antonino Contiliano
Intenderò dunque per letizia […] la passione per la quale la mente passa auna maggiore perfezione; per tristezza invece, la passione per la quale
essa passa a una perfezione minore. […] Quando la mente immagina cose
che diminuiscono o impediscono la potenza d’agire del corpo, si sforza,
per quanto può, di ricordare le cose che ne escludono l’esistenza. […] Vale a dire
l’amore non è niente altro che la letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna; e
l’odio niente altro che la tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna. B. De Spinosa ( Etica, III) Non mi importa di mostrare di aver avuto ragione, ma di stabilire se l’ho avuta […]
E solo […] se per caso non avevamo ragione, se è davvero la terra che gira […]
se tutte le altre ipotesi, all’infuori di questa, ci si dovessero squagliare tra le dita,
allora nessuna pietà per coloro che, senza aver cercato, vorranno parlare! Bertolt Brecht ( Vita di Galileo)
Nadia Cavalera, Spoesie, Fermenti, Roma 2010.
Già il titolo – Spoesie – che raccoglie i nuovi testi poetici di Nadia Cavalera, la poetessa responsabile, tra l’altro, di Bollettario on line (http://bollettario.blogspot.com), anticipa che non ha niente a che fare con il bidet lirico di tanta poesia italiana odierna destinata alle private angosce, ai rifugi o alle fughe dal mondo, o a mielose melense dediche poetiche al “premier” – che spremier spremula il popolo liberamente e senza pudore, cinico – come fa certo sig. Bon-dì, il quale si dice pure che faccia il ministro della Repubblica padronale quando l’otium non l’assale.
Spoesie sono testi poetici invece che nascono dal “macero” e dal “rovello pensiero”. Sono testi che nascono da una mano che sa bene – conosce e maneggia altrettanto bene l’arte del poiein –come affondare poeticamente il conflitto antagonista in un contesto in cui alla classe dominante e al suo comitato d’affari – stuolo di impiegati, di illusi per convinzione o per comodità – si è consentito di far piazza pulita pure dell’immaginario alternativo e di rubare il futuro al collettivo e agli individui che in questo trovano ragione del loro esser-ci politico.
E che il fare poesia della Cavalera sia del saper fare poesia emerge dall’analisi della scrittura/lingua di questo suo nuovo libro (come dai precedenti), e non solo dal fatto che in un testo dello stesso Spoesie Nadia reciti: “…Senti amico che continui a scrivermi e chiedermi / in questi’inverni caldi di vita sballi saldi / Per essere poeta non basta infilare / paillettes versi lustrini rime brillantine / Ci vuole il macero dentro dello spiazzamento / L’affondo chiaro lento nell’emozioni / la tempest’indigesta dell’intorno irreale / il rovello pensiero pestello di volerlo mutare /…/ “(p. 20).
Certo, nella brevità di questa nostra lettura, non possiamo prendere in considerazione (dichiarando anche i limiti di chi scrive) punto per punto l’intero impianto della scrittura poetica propria al libro Spoesie. Ma è sicura cosa che in tutta l’opera ci sono le costanti qualificanti e assolutamente riconoscibili di una mano faber,che sa come giostrare il linguaggio poetico e distanziarlo da quello standard, per offrire al suo lettore un carico di informazioni complesso e organizzato che il normale e omologato linguaggio non può.
Solo a mo’ di veloce esemplificazione, se guardiamo dentro le allitterazioni di quest’ultimo verso, l’ assonanza di “caldi…sballi” e la consonanza di “ caldi…sballi saldi” che strutturano i versi “in questi’inverni caldi di vita sballi saldi / Per essere poeta non basta infilare / paillettes versi lustrini rime brillantine”, ci accorgiamo come la correlazione sonora carichi di valenza sarcastica l’importuno poeta che gli si presenta con “rime brillantine”. L’intentio allusivo-ironica e parodica messa in campo dalla poetessa Cavalera non solo è chiara, ma prova della sua capacità artistica di lavorare con il linguaggio poetico. Un lavorio poetico che si esplica facendo migrare isotopie fonico-sarcastiche per effetto produttivo di processi analogici in circolo rispetto al simbolico-formalizzato della logica delle separazioni concettuali, astrattamente rese autonome e ipostatizzate come il normale rispetto all’anomalo.
L’asprezza è tale che – come si può vedere dai versi “per noi tronfi stronzi / gonfi per risucchio porco pronti” (p. 71) –, crediamo, si possa dire che la nostra poetessa ci offre uno spaccato espressionistico poetico-parodico (di certificata qualità) tale che gli obiettivi del suo mirino risultano colorati anche del ridicolo del grottesco.
Uno spaccato espressionistico linguistico che ha il sapore della virulenza aggressiva e vertiginosa tipica della “gergalità” neolinguistica dell’argot, il linguaggio dell’ “odio di classe” che i diseredati, gli sfruttati e i dannati dei quartieri delle periferie, ieri parigine, oggi metropolitane, e ovunque è il globale della ruberia onnivora dei capitalisti, sputano addosso all’odiato padrone delle ricchezze, delle agiatezze e del potere.
Così è indubitabile che la polisemia e l’ordine semantico del discorso poetico di Spoesie siano legati non alla grammaticalità e alla logica consequenziale della comunicazione standard, bensì all’equivalenza e al parallelismo fono-ritmico del verso, alle “compagne di rima”, così come la sintassi del verso dipende dal ritmo; così come i segni sincategorematici, unitamente a quant’altro di non categorematico usa la poesia – come le parentesi e la punteggiatura limitata ai soli due punti, utilizzati dalla Cavalera per ulteriore incavamento/scavo riflessivo o di incremento di senso, come pratica significante demistificante ironica, parodica, sarcastica. Una produzione poetica di testi (anche) in cui i rimandi intertestuali (interni ed esterni), inoltre, non mancano (vedere i richiami a Benjamin, quindi Sanguineti, per l“odio di classe” nella poesia dei “laboratores / di medioevale memoria”[1]); e la trans-linguisticità e la transcodificazione neppure. Dal Jahvè biblico (io sono colui che sono) al piromane Cecco Angiolieri, infatti, il trasferimento e l’adattamento del codice simbolico richiamato-rievocato, piegato creativamente a nuova comunicazione tematico-poetica, nei nuovi testi di Spoesie, è documentabile lì dove leggiamo: “ T’ho dato la vita /uomo / come al sole al mare alle rose alle stelle / all’acqua alle rocce sorelle / Io sono colei che sono / sono la Grande Madre Iside Sofia la Vergine Maria / E tu appestato d’inferiore / invece di diventare altro fiore / …” (p. 62); “Brucerei e smantellerei io la mia casa / mattone dopo mattone sin nelle fondamenta /…/ E sradicherei strade e ponti della mia città / se solo potessi ridare l’uomo a se stesso /…/” (p. 77).
Ma l’odio di classe che colora la distribuzione poetica della lingua-argot, usata per chi denigra e rovina l’Azienda Itaglietta – i partiti senza partito, i ladri di tutto della “Cittadina monnezza” e “dopo tanto precariato deprecato” (p. 64), è il sacrosanto risentimento, legittimo e giusto, di chi spinozianamente riconosce e attacca coloro i quali – gli sfruttatori e cinici padroni del sistema sociale-economico-politico di classe – sottraggono e diminuiscono la potenza d’essere di ogni soggettività, o rubano e degradano la gioia e la felicità di vivere e della vita, che per l’eretico Spinoza coincideva con l’AUMENTO e non la DIMINUZIONE della potenza d’essere di ciascuno.
E di questa risonanza reattiva, passionale quanto ragionata e argomentata poeticamente, la poetessa Cavalera dà conto nel testo “A domanda rispondo”. Qui il suo sapere poetico costruttivo e creativo si potenzia ulteriormente mettendo a lavoro (di lima e punta) l’intreccio esplosivo dell’accoppiamento del procedimento anaforico che fa nexus con le “compagne di rima”, che si alternano tra terzine e distico di chiusura.
L’anafora è la ripetizione del “perché” ad inizio di ognuna delle sette strofe in chiave di terzine (generalmente a rima alternata e baciata). Il “Perché” anaforico che inveisce e, con passionalità ragionata, rimarca, assilla e assedia la bandana dell’italico stupratore di ogni in-decenza: “Perché ti sei fiondato in politica / per sfuggire alla giudiziaria verifica // Perché arrivato colle pezze rosse al culo / ti sei arraffato coi compari un impero /…// Perché secondo il pentito hai sostituito l’amico / nei patti con la mafia che a triangolo reclama la resa /…// Perché frequenti minorenni /…// Perché gestisci la cosa pubblica come fosse cosa tua /…// Perché violenti in continuazione / la magistratura il capo di Stato la Costituzione / E chiami terrorista o comunista qualsiasi opposizione // Perché l’Italia è a pezzi e vuole nuova vita / che dalla tua presenza non le è garantita” (p. 78).
La distribuzione della lingua poetica, in quest’opera di Nadia Cavalera, opera per distruzione, costruzione, ridistribuzione e ricombinazione delle componenti della lingua base, cui necessariamente è legata. Nessun pensiero, infatti, e nessuna praxis possono pensare il reale se non all’interno di un linguaggio che lo traduce, lo filtra e ne firma la relazione semiotico-allegorica e sintomatologica funzionale o disfunzionale. E, qui (nel caso della nostra autrice), la ristrutturazione è condotta in maniera tale che, per dirla con il linguaggio della critica dell’economia politica (d’altronde la referenza è nello smascheramento del linguaggio politico corrente della “ban-d” – potere e banda – della governance italiana di turno), è un attacco anche alla logica del capitalismo liricistico.
Un dies irae chiaro, ora allusivo, e non certo per elusione o ellissi, ma per dettato di stile poetico dalla poetessa scelto ad hoc per non annacquarne l’aseità organica, e la produttività poetica emergente in calce come un gaiser. Una produzione testuale che, amalgamante scrittura letterario-poetica e moduli linguistici correnti portati a nuova vita semantica, a parere di chi scrive, sfruttando il nomadismo concettuale e categoriale dell’economia politica critica, è produttiva di ulteriore plusvalore e saggio di profitto semantico poetico che invita al risveglio del collettivo antagonista spappolato (per ora).
Un titolo così, poi, come Spoesie, con il suono duro e sparato del suo iniziale e acuto gruppo fonetico sp-o(-e-sia), non può non rimandarci alla lingua po(i)etica tipica dell’argot e “verlan” (al contrario) delle banlieues. L’“incontrario” verlano del linguaggio particolare che qui sarcasticizza è, infatti, il sintomo del mondo simmetricamente capovolto liberistico-capitalistico che ci ruba il futuro e che va rimpiazzato con “un altro mondo è possibile”. Capovolto è, infatti, il mondo in cui noi oggi viviamo, e che ci vogliono fare ingoiare come diritto, razionale e naturale; un mondo che l’argot/verlan poetico di Nadia Cavalera ci restituisce agganciandolo anche ai precedenti di “tangentopoli”che, come versificherà, sono da pescare nel Novecento. Poeticamente filtrato, questo universo reificato, quanto violento a dismisura, è offerto a un lettore attento e disponibile a leggere tra le righe e oltre – sfruttando quanto la retorica poetica di Nadia Cavalera ha utilizzato per far dire alla poesia ciò che i politici nascondono o che i molti non vogliono vedere – gli esiti dell’analisi tematica di queste “spoesie”, che la poetessa modenese dà come una sorgente archeologica di “acqua fresca” e “aulentissima”.
L’argot/verlan è lingua delle ban-lieues (luogo – lieue – dove il potere è amministrato da una ban-da; nel libro Spoesie, la banda è quella delle bandane nostrane, ricche, opulente e scassinatrici a giro di uragano punitivo, come per vendetta di un diluvio universale).
È linguaggio letterario – questo “slang” delle spoesie della Cavalera – che, miscelato poeticamente, si fa lingua della periferia dell’Impero arrabbiata; è voce pure che dà voce agli esclusi e sfruttati giustamente animati dal consapevole odio di classe dei medioevali “laboratores”, e non solo.
È miscela esplosiva che, attraverso l’immaterialità-materialità storica determinata del linguaggio e dell’ideologia che la sostanzia, con il suo lessico carico di aggressività demistificante e di denuncia delle porcate governative di un paese, devasta il capovolto delle mistificazioni naturalizzate del luogo. Il luogo ban(-d-)lieue, capovolto, per la nostra poetessa, naturalmente, è il mondo “verlan” dell’Azienda Italia. E la “ban-d”, naturalmente, del lieue è quella del fascismo berlusconiano, il potere che ha svuotato, in vent’anni e passa di governi “ladroni” della for-za lavoro viva dei laboratores italiani e della loro dignità di vita pubblica, di qualsiasi funzionalità democratico-liberale, e mettendo a sacco la Repubblica italiana. Questa, infatti, non risulta più fondata sul lavoro e la sovranità popolare (come vuole la Costituzione repubblicana) ma sul profitto che in regime berlusconiano gode della privatizzazione del diritto pubblico, oltre che dello stesso diritto privato, con la nascita del general contractor e del project financing delle Spa o Srl private:
“Guardo il Novecento / e vedo il fascismo tangentopoli il berlusconismo / per gonfiare l’ignoranza / la mal’informazione la mediatica soggiacenza / vedo il trionfo del sistema capitalistico e liberista / il potere ecclesiastico frastico / il precariato dilagante /ampliarsi la distanza tra ricchezza e povertà / l’alienazione dei servizi pubblici alla privata profittualità / (: temo il cinismo l’astensionismo)” (p. 52).
Tuttavia, Nadia, nonostante la vergogna del potere “ecclesiastico frastico” della santa alleanza politico-religiosa, e ad hoc terroristica, procede sempre imperterrita!
E il ritmo ascendente (giambico e/o anapestico) di “Guardo il Novecento”, che rivela il suo galoppo/trotto rapido e passionale, brevettato, almeno a parere di chi scrive, di taglio argotico, colpisce nel segno e non la trova sola.
Bon, “todavÍa”, – direbbe lo scrittore, saggista e poeta Mario Lunetta (Formamentis–Poema da compiere, todavÍa, 2010) –, per il verlan (“incontrario” uso) dissacratorio, e il sarcasmo poetico, cui vengono sottoposte le nozze di “Cana”. E ciò in veritate transcodificazione (e altro lessico di straniamento sulfureo sanguinante della ferocia guerresca americo-israeliana ai danni del popolo palestinese), dove “Cana in sanguine” (Spoesie, pp. 13-14) stigmatizza in fono-sonoro-logia e civil-politica poesia di esteso in-confine:
“Altro che nozze tarallucci e bisbocce / a Cana di primo miracolo tana naca / è solo terrore un’altra volta stolta molta / centosei nel 1996 i morti ora son sessantasei / donne bambini molti invalidi calidi di vita avidi // Io son Alì anchilosato all’ultima fermata disperato / questo è mio fratello di morte sorte a me legato / e questa mia mano semichiusa col dorso in fronte / supplica riparo dal vostro ingiustificato agguato / israeliani folli statunitensi pazzi / gravidi d’orrore i vostri passi / ché non è vino d’acqua questo che scorre / ma sangue d’innocente fonte // Si sveglino le genti imprevidenti cieche veggenti /…/ riesumati {vedo chi dandy moscio nel rostro fa crollare una catena / popolare e poi assiso su morbida poltrona camerale indulge burroso alla controparte [: si fa per dire è solo commedia d’arte (: di quale libro paga occupi tu presidente dudu le scorte porte?)]}”
[1] Il verso è tratto da La vera non violenza, pp. 66-67, trasposizione poetica di un Pensée in libertà vigilata dell’autrice, pubblicato sul suo blog, e da me erroneamente attribuito a Sanguineti nel saggio “Il padrone manda il boia – Una letizia spinoziana per Edoardo Sanguineti /Odio virtuoso e nuovo engagement.” (Fermenti, XXXVII, n.232,2008.)
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