Foto Multimedia News — 03 Novembre 2013

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Reading di poesia, per ricordare i morti di Lampedusa
Modena, 3 novembre 2013

Introduzione
di Giovanna Gentilini

Questa lettura di poesie dal nome “ Il cielo di Lampedusa” è stata organizzata dal comitato di Modena-Bologna – Reggio Emilia di “ 100 Thousand poets for change “ “ Centomila poeti per il cambiamento.”Movimento sorto in Inghilterra due anni fa ed ora presente in molti paesi del mondo. I poeti consapevoli che la parola contribuisce a formare il mondo, consapevoli che l’arte e la poesia possono contribuire a migliorarlo offrono le loro poesie perché ciò possa avvenire, anche se in minima parte, nella certezza che la parola poetica può produrre emozioni, pensieri ed azioni. Siamo qui per dare inizio a una lettura di poesie alcune nate dall’indignazione e dalla pietà per le morti, centinaia di morti, donne, uomini, bambini , per annegamento che si consumano nel mare Mediterraneo , davanti alle coste di Lampedusa, un mare che fa da confine tra l’Africa e L’Europa e del quale l’Italia è il primo approdo per tanti migranti che fuggono dalla loro patria per miseria, persecuzioni, soprafazioni e guerre sperando in una vita migliore. Altre poesie sono a testimonianza di altri fenomeni simili accaduti nel Mediterraneo negli ultimi venti anni.  Scritte da poeti della nostra terra e da poeti provenienti dai paesi degli stessi profughi  sono lette dai poeti  che le hanno scritte o da altri che danno loro voce. L’evento mira a tenere accesi i riflettori sui morti e i sopravissuti  e su un fenomeno globale, quello dell’emigrazione che vede un grave ritardo e una grave carenza da parte di tutti i governi Europei. Siamo qui in mezzo alla gente, ai cittadini per cercare insieme modi nuovi di stare insieme che trasformino i confini, le frontiere da luoghi di separazione, diffidenza, paura,e violenza in luoghi di fiducia reciproca, accoglienza e solidarietà. Affinché mai più il Mediterraneo sia luogo di morte.

Governo tombarolo
di Pina Piccolo

Cercavo un appellativo o una metafora che calzasse l’iniquo operato del governo delle larghe intese in tutto l’iter degli annegamenti al largo di Lampedusa dal 3 ottobre fino alla celebrazione farsa dei funerali di Stato in absentia dei corpi degli oltre 300 annegati da respingimento (ossia giovani per lo più provenienti dal Corno d’Africa annegati a causa di leggi inique approvate da entrambe le compagini governative e che sono state oggetto di oltre 100 richiami per violazioni dei diritti umani da parte dei massimi  organismi internazionali per i diritti umani). Mi sono venute in mente locuzioni bibliche del tipo “sepolcri imbiancati” per denunciarne l’ipocrisia ma alla fine, sul scia dell’intramontabile espressione  “governo ladro” ho pensato di coniare la neo-locuzione “governo tombarolo”. Per tombarolo, nel significato classico del termine, si intende un violatore di tombe, ladruncolo alla ricerca di tesori o di modesti averi che al malcapitato defunto i familiari avevano fatto indossare o messi al loro fianco per accompagnarli nel viaggio dell’aldilà. L’attività di addobbare la salma si può considerare un’attività consolatoria per chi resta nel senso che nel rito si riafferma una certa “normalità” dello status del defunto, che continua a condividere  interessi anche estetici con chi continua invece a vivere. L’attività del tombarolo invece consiste nella cinica, egoista raccolta dei frutti del rito.

Domani ad Agrigento, dopo vari tentennamenti, il governo italiano, in tutte le sue compagini e colori di pelle, si presterà a un’ulteriore operazione di spogliazione dei morti, cioè cercheranno di spogliare  nuovamente il corpo in absentia di oltre 300 giovani eritrei, somali e altri provenienti dal bacino mediterraneo di qualsiasi gioiello potessero ancora avere addosso. Nelle varie piazze di Italia nelle scorse settimane, si sono sentiti spesso i rappresentanti istituzionali locali rammaricarsi per il “tragico naufragio”, versare lacrime, forse anche sentite, per le vite spezzate. Ma come dice una canzone del cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo “Unnavi curpi u mari” (cioè il mare non ha colpe) se la barca in pericolo non è stata soccorsa da ben tre pescherecci per paura di ritorsioni da parte del sistema penale italiano. Non sono le forze della natura a respingere bensì precise forze politiche che hanno codificato sistemi iniqui per impedire la libera circolazione anche di persone in pericolo di vita, mentre si sforzano in ogni modo di fare leggi che consentano la libera circolazione di merci e capitali (questi ultimi senza controllo alcuno).

Nei media a grande diffusione si sono spese migliaia di parole e di righe di scrittura  per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita,  che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord –est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto eppure a quasi a nessun giornalista viene la tentazione di fare un collegamento tra le condizioni politico-sociali economiche di quel paese e l’arrivo di tanti giovani in fuga.  Non si è trovata traccia nella stampa italiana di un giornalismo d’indagine che si prenda la briga di investigare le committenze del governo eritreo per quanto riguarda industrie tessili e molti  altri prodotti di imprenditori italiani. Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti ed ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti  da un paese per cui l’italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico.  Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti  venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Infatti nella fretta e furia  del governo italiano di far sparire i corpi un gran numero di essi non sa neppure dove sia ubicata la tomba del proprio congiunto. E tutto questo per non parlare della sorte toccata ai sopravvissuti a cui sono state prese le impronte e che sono stati prontamente accusati del reato di clandestinità. Quindi paradossalmente per i morti si è prospettata la possibilità di garantire la cittadinanza mentre per i vivi si è proceduto a dare ben altra ospitalità nei famigerati centri di identificazione di espulsione.

Si possono in un certo senso anche scusare i sindaci, gli assessori, rappresentanti dell’italiano medio al cui “ruolo” (per usare una parola di cui ci si riempie molto la bocca in Italia) non compete la conoscenza approfondita di politica estera, ma ai massimi rappresentanti del governo italiano questo compete e come. Eppure, in questo strano rito funebre domani, dove saranno assenti i corpi degli annegati da respingimento,  domani accanto alle massime rappresentanze del governo italiano siederanno non i genitori e gli amati delle persone annegate  ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. In un discorso classico delle migrazioni  queste “istituzioni” rappresenterebbero le forze di “push” e “pull” (cioè le forze che “spingono” a lasciare un paese e le forze che “attraggono” verso un altro paese) solo che nel caso, dell’Italia e della sua ex colonia Eritrea perfino queste incombenze sono svolte con una grande doppiezza per cui il paese che teoricamente dovrebbe “attirare” è quello che in realtà respinge (e adesso si munisce perfino di droni per farlo con maggiore efficienza) e il paese che spinge è quello che attraverso tutta una serie di sotterfugi ci guadagna dall’esodo di massa dei suoi giovani  “attirando” dentro le sue casse parte dei loro magri guadagni(le ambasciate eritree dotate in tutto il mondo di una fittissima rete di informatori esigono una tassa mensile del 2 per cento  sugli introiti dai loro connazionali anche se sono fuggiti all’estero come rifugiati politici).

Quindi domani i tombaroli nostrani e quelli del regime di Afewerki pure in assenza delle salme, dopo aver creato le condizioni che hanno portato alla morte di oltre 300 persone che cercavano la vita,  procederanno con le belle parole a spogliare la parte più fulgida della loro impresa. Cioè, le “istituzioni” ben lontano dal prodigarsi in un atto di cambiamento, cercheranno con una narrazione pietistica di trafugare la narrazione di fiducia nel futuro, di progetto di realizzare le proprie aspirazioni che era insita nella fuga delle persone annegate. Il loro corpo in fuga da e in arrivo a rappresentava la possibilità di una diversa narrazione, troncata appunto non dalla natura ma dalle leggi inique degli esseri umani.  La maggior parte di loro, attraverso sacrifici di intere famiglie, era alla ricerca di un posto in cui la vita non fosse compressa dai voleri e dagli interessi di un regime (un desiderio di cambiamento di condiviso da milioni di giovani in tutto il Nord Africa e Medio Oriente , appunto quelli che in altre nazioni si trovano protagonisti di rivolte e rivoluzioni). Domani credo che il miglior tributo che possiamo dare alle loro speranze nel futuro è di spegnere il canale sulla dissacrazioni dei tombaroli governativi, di unirci ai fratelli e alle sorelle eritrei che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione a Montecitorio per far rivivere la narrazione alternativa. Ed impegnarci perché questa storia non venga dimenticata appena spente le luci dei riflettori, non solo perché quella storia merita di vivere ma anche perché non è poi una storia tanto diversa dalla nostra, è la ricerca di una diversa narrazione di quelle che possono essere le nostre vite, il nostro presente e il nostro futuro.

 

Una delle poesie lette  (rientrante in un’antologia di prossima pubblicazione)

Casa
di Warsan Shire
(Traduzione di Pina Piccolo)

nessuno lascia la propria casa a meno che

casa sua non sia la bocca di uno squalo

verso il confine ci corri solo

quando vedi tutta la città in fuga

i tuoi vicini che corrono più veloci di te

in gola il fiato insanguinato

il tuo ex-compagno di classe

quello che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine

ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo

lasci casa tua

quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

 

nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo

fuoco sotto ai piedi

sangue che ti bolle nella pancia

 

non ti sarebbe mai saltato in testa di farlo

se non fosse per  la lama che ti stampa minacce incandescenti

sul collo

e nonostante tutto continui a canticchiare  l’inno nazionale

sottotono

e solo dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto

singhiozzando ad ogni boccone di carta

ti risulta chiaro il fatto che non ci tornerai.

 

dovete capire

che nessuno mette i figli su una barca

a  meno che l’acqua non sia più sicura della terra

 

nessuno va a bruciarsi i palmi delle mani

sotto i treni

sotto i vagoni

nessuno passa giorni e notti nel ventre di un tir

nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse

abbiano un significato diverso da un qualsiasi altro viaggio.

 

nessuno striscia sotto ai recinti

nessuno vuole essere picchiato

commiserato

 

nessuno se li sceglie i campi profughi

o le perquisizioni a nudo che ti lasciano

il corpo pieno di dolori

 

o il carcere,

perché il carcere è più sicuro

di una città che arde

e un secondino

nella notte

è meglio di un carico

di uomini che assomigliano a tuo padre

 

nessuno ce la può fare

nessuno lo può sopportare

nessuna pelle può resistere a tanto

 

Il

 

Tornatevene a casa neri

rifugiati

sporchi immigrati

richiedenti asilo

che prosciugano il nostro paese

negri con le mani tese

hanno un odore strano

selvaggio

hanno distrutto  il loro paese e ora vogliono

distruggere il nostro

 

le parole

gli  sguardi storti

come fai a scrollarteli di dosso?

 

forse perché il colpo è meno duro

che  un arto divelto

o le parole sono più tenere

che quattordici uomini tra

le cosce

o gli insulti sono più facili

da mandare giù

che le macerie

che le ossa

che il corpo di tuo figlio

fatto a pezzi.

 

a casa ci voglio tornare,

ma casa mia è la bocca di uno squalo

casa mia è la canna di un fucile

e a nessuno verrebbe di lasciare casa sua

a meno che non sia stata lei a inseguirlo fino all’ultima sponda

 

a meno che casa tua non ti abbia detto

affretta il passo

lasciati stare i tuoi stracci

striscia nel deserto

sguazza negli oceani

 

annega

salvati

fatti fame

chiedi l’elemosina

dimentica la tua dignità

la tua sopravvivenza è più importante

 

Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia

che ti mormora nell’orecchio

Vattene,

scappatene da me adesso

non so cosa io sia diventata

ma so che qualsiasi altro posto

è più sicuro che qui.

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