Prose Racconti — 28 Agosto 2019

 

Michela Apollonia Riccardi, 1943

 

Nadia Cavalera
Michela Apollonia Riccardi, mia madre

È nata a Galatone (Lecce), in un vicolo di Armando Diaz (cuore del centro storico), il 28 agosto del 1921, da Filomena Cascarano e Giovanni Riccardi, che sulla stessa strada, ad angolo col vicolo, gestivano un negozio di alimentari con trattoria, e alcune camere d’albergo, dislocate sopra.
Si chiamava Michela Apollonia Riccardi, terzultima di 10 figli (Pantaleo, Rocco, Antonio, Michele Biagio, Vincenzo, Egilda, Egilda Grazia, Michela Apollonia, Lucia, Annita).
È mia madre.

Porta il nome del fratellino Michele Biagio, morto, probabilmente di spagnola, a 5 anni nel 1918, due giorni dopo di Egilda, di un anno appena.

Una definizione breve? Bella, buona e santa. Un’ intera vita dedita alla famiglia. Prima quella d’origine, dove aiutava per quanto poteva i genitori nella loro attività di commercianti ristoratori, con un annesso piccolo albergo. Proprio così, un albergo. Forse era più una locanda, ma il termine che correva in famiglia era quello. Ricordo bene che lei lo ripeteva spesso, che andava a riordinare le camere dell’albergo (quattro), e ricordo ancora meglio il suo sconcerto quando una volta vide, sul letto già rassettato, tutti gli indumenti piegati con ordine del loro avventore forestiero più strano. Non ne ricordo più il nome, ma forse scavando nella storia del paese, vi si potrà arrivare. Sempre triste, allampanato, di poche parole, quella mattina, prima di andarsi ad uccidere, aveva voluto lasciare tutto in ordine. E in quest’ottica probabilmente rientrava la sua morte, una messa a punto di un errore d’origine per lui. Lo ripescarono a mare, con una corda e una pisara al collo. La cosa fu per lei così sconvolgente che non volle andarci più nell’albergo, gli sembrava di vederlo dappertutto. Fu accontentata, anche perché in una casa con tanti figli e attività molteplici, di cose da fare non mancavano, e c’era per lei una continua lotta per guadagnarsi e conservarsi uno spazio tutto per sé, tra le prepotenze talora dei fratelli (non aveva mai dimenticato quel calcio sferratole da dietro, nelle parti basse, senza motivo, da Antonino) e le concorrenze delle sorelle (per vincere la golosità di Gilda si nascondeva il cioccolato, dove poteva e una volta sotto il materasso lo trovò squagliato).

Ma i fratelli, tutti provetti lavoratori in vari settori, se ne andarono ben presto, e in casa rimasero solo le quattro femmine.

Finalmente si poteva stare meglio. Anche se la casa rimaneva piccola. Consisteva in una saletta d’ingresso (con un tavolo, una credenza un’angoliera e uno scrittoietto), due camere da letto a destra (la prima dei genitori con porta finestra sul vicolo, l’altra interna delle ragazze, con finestrella alta su un cortile comune), e, in fondo a sinistra, l’accesso ad un cavedio (dove s’imponeva, accanto ad una pila, un portabacile con brocca), da cui si raggiungeva il cesso prima, poi la cucina economica con camino, e anche, attraverso una breve rampa di scale a destra, la stanza dei fratelli, ricavata da una colombaia.

Partito l’ultimo di essi, Gilda e Michela si trasferirono subito nella stanza in alto. Cetta e Annita rimasero giù. E la vita continuò per lei nella norma, con la costante attenzione e curiosità verso tutto ciò che di bello la circondava, soprattutto riviste di moda (circolanti per Gilda, bravissima sarta), storie ammodo del paese, raccontate nelle prediche, e persino i panni stesi dalle cameriere di vicini blasonati. Ne ammirava la cura e l’ordine nella disposizione, che fece suoi per tutta la vita, sino a trasmetterceli. Guai a stendere i panni alla rinfusa, ma tutto con una logica che avrebbe favorito l’operazione di ritirarli e stirarli.

Anche negli amori fu molto attenta e cauta (voleva evitare le tante storie deludenti di ragazze, sedotte a abbandonate dai loro innamorati irresponsabili, come sarebbe capitato poi ad una sua sorella). Accettò la corte solo di un giovane bello, intelligente, e di carriera promettente, che sarebbe stato mio padre: Sebastiano Cavalera.
Si fidanzarono che lei aveva 16 anni, ne condivise sogni e aspirazioni, poi lui partì in guerra, e si sposarono nel 1945, al suo ritorno. Abitarono in una traversa della principale Via XX settembre, su cui, ad angolo con la loro stradina, mio padre aprì il suo primo negozio di elettrotecnica. La casa piccolissima, a piano terra, aveva un ingresso-soggiorno, una camera da letto, la cucina, e un cesso, nel cortile dietro, pieno di ogni fiore (li amavano entrambi). Lì sono nata io, e prima ancora Adriana e Giovanni.

La casetta, dati i tempi, non era poi male, ma ben lontana da quella che aveva sognato mio padre (che nel frattempo molto aveva studiato da autodidatta, seguendo le sue tendenze artistiche e letterarie), e che avrebbe potuto tranquillamente acquistare se solo avesse trovato, al suo rientro, i soldi che, grazie alle paghe e qualche piccolo commercio, era riuscito a mandare a casa: 30 mila lire (15 mila alla fidanzata e 15 mila alla madre).
La cifra esatta richiesta per l’acquisto di una villa, in contrada Cappuccini, sul lato destro, andando verso Gallipoli (dove forse è sorto poi un B&B o un ristorante). Ma dei soldi mandati non gli fu possibile rientrare in possesso della somma inviata alla madre (li aveva spesi per le sorelle) e il sogno saltò.

Furono felici lo stesso, e tanto più quando si trasferirono, nel 1951, in via Cappuccini, al primo piano del numero 47, una casa ariosa, di quattro stanze, più cucina, lavanderia con pila (accanto alla quale ben presto comparve una piccola lavatrice che si caricava dall’alto), un ripostiglio, un bagnetto e un balcone lungo quanto l’intera facciata (il primo del genere in paese). Per di più un terrazzo a completa disposizione, dove mia madre poteva estrinsecare tutto il suo estro per sventolare la biancheria al sole.

Qui, a sottolineare la svolta, sarebbero nati poi altri due figli: Lorella e Giorgio.
E prima ancora l’abitudine di andare ogni domenica al cinema. Essendo io molto piccola, fino a 4 anni, mi portarono con loro, mentre i miei fratelli, dormivano, affidati alle cure di Graziella, la figlia della padrona di casa che abitava al piano terra. Questa frequentazione regolare fece scattare in me l’amore per la lingua italiana e l’associazione lingua/qualità di vita, che avrei focalizzato e sviluppato molto dopo.

Furono anni bellissimi e di pieno benessere, tant’è che io personalmente avevo maturato l’idea di essere la più ricca del paese. Da qui il litigio con una mia compagna di scuola, che in una discussione sul tema (eravamo in quarta elementare, credo), mi aveva contestato il primato. L’ho odiata e subito a casa ho riferito l’episodio a mia madre, sperando in una smentita. Invece lei tranquillamente lo confermò: “Certo, Nadia, ha ragione Loreta, i C. sono molto ricchi, e hanno tante proprietà. E ci sono tanti altri ricchi in paese. Noi qui siamo in affitto”.

Scoprii allora, tra l’epifania di una ridda di paperoni locali, che per essere felici non ci vogliono beni catastali, ma affettivi e morali. Quelli che a tutti dovrebbero essere garantiti per una vita decorosa che valga la pena vivere.

Continuai ad amare la mia vita e a rappresentarla ai miei amici nella maniera più fantasiosa e teatrale possibile, secondo i tanti film di cui mi ero nutrita da piccola, al cinema (sulle ginocchia di mia madre), e poi a casa, alla televisione (di cui abbiamo usufruito per primi poiché mio padre, nel frattempo, insieme ad un’industria di trasformatori di tensione, aveva messo su un negozio di elettrodomestici sempre su via XX Settembre – con l’esclusiva ambita della Philips).
Quante menzogne in quell’ultimo anno di scuole elementari, come se volessi rivalermi del mio doppio smacco, non solo in famiglia (non ero più la piccolina viziata), ma anche nel sociale, per il mio ridimensionamento economico! Se gli altri avevamo un albero di limone, io un’estensione intera, se gli altri vantavano un cavallo, io un’intera scuderia. E come se non bastasse, li sfidavo a venire a controllare. E sudavo freddo, ricordo ancora, nel dirlo, temendo che accettassero. Ma ciò che non riesco a dimenticare sono soprattutto i dialoghi ampollosi, ingessati, da piccola lady, che riportavo alla mia compagna di classe Lucia, e da cui pretendevo fiducia cieca. I saluti in famiglia, secondo i miei racconti, si svolgevano così: “Buon giorno figlia” “Buon giorno padre” o “Buon giorno madre”. E così di seguito in un crescendo di invenzioni che diventò insostenibile emotivamente. Non sapevo come uscirne, mi sentivo soffocare sicché mi promisi solennemente che, cambiando scuola, dalla prima media, non avrei mai più detto una menzogna. Per nessuna ragione al mondo. Libera e leggera. Finalmente. E così è poi stato. Tutto all’insegna dell’assoluta trasparenza.

Quegli anni comunque d’oro passarono, quando nel maggio del 1963 (io ero in terza media) mio padre ebbe un incidente stradale al ritorno da Bari, nei pressi di Mesagne, e dopo un intervento alla milza, per bloccare l’emorragia, morì. A ottobre avrebbe compiuto 46 anni. Mia madre in quei giorni gli è stata sempre vicina. Ci sono andata anch’io, insieme ai fratelli grandi, in ospedale subito, con le zie paterne, e non dimenticherò mai le contorsioni e le urla di dolore di mia zia Anita, nel vedere il luogo dell’incidente (ci dovevamo passare per forza), la macchina bianca (una mille e cento familiare), accartocciata intorno ad un ulivo. Un incidente che credo mio padre abbia subito, sembrava che fosse stato mandato fuori strada, da un sorpasso azzardato di altri. Infatti nei rari momenti di lucidità chiedeva: “E l’altro, l’altro che si è fatto? L’avete visto? Che dice?”.

E in effetti esisteva un altro, un certo barbiere di Lecce che fu rintracciato, ma che nessuno allora è riuscito ad inchiodare alle sue responsabilità. Mia madre era sempre vissuta in casa, aiutata, per i lavori più faticosi, da una signora deliziosa, Giorgina, vestita di un camicione lungo, nero, stretto in vita da un grembiule pure nero, le chiome grigiastre crespe intorno al volto e le gote sempre rubizze (prima di andare via da noi pranzava regolarmente, col suo bicchiere di vino garantito). La mamma, con cinque figli da accudire, non usciva mai, né faceva la spesa (ci pensava mio padre) e non aveva alcuna dimestichezza con certe cose del mondo. Fu infatti un amico di mio padre a consigliarle e gestire il fallimento, la sottrazione della merce da vendere alla spicciolata per un qualche sostentamento ai figli, le pratiche per la pensione di riversibiltà, quale vedova di un maresciallo di marina in pensione anticipata, per motivi di salute (papà in guerra si era preso la tubercolosi, curata perfettamente in Germania, durante la prigionia), la richiesta di sussidi ai vari enti preposti.

Dopo la morte di papà, per noi tutti una vita molto misurata, ma vissuta con allegria. Che risate, una volta, davanti ad una scatoletta di tonno (più piccola della polenta di manzoniana memoria), da dividere in cinque. O quando tutti insieme stabilivamo il compenso che mio fratello Giovanni doveva chiedere ad un cliente per le riparazioni di radio o televisioni, in cui, per inclinazione paterna, lui eccelleva. Andavamo al rialzo della cifra, che alla fine risultava comunque inferiore a quella dei radiotecnici ufficiali. Il tutto senza amarezza, sempre ridendo e scherzando, quasi un gioco transitorio. Come in effetti è stato.

Grazie a mia madre, che ha sempre saputo tenerci uniti, sostenerci al meglio. Almeno per gli altri. Io in effetti avevo più fame di lei (soffrii in seguito di anoressia), ne ero gelosa. Dacché mi aveva dato un’altra sorellina, nel 1958, che mi aveva spodestato dal mio ruolo di principessina, senza prepararmi adeguatamente (quando nacque Giorgio, ero già avvezza). Ne ebbi piena coscienza, quando, a 8 anni, mi ritrovai sola davanti ad un tazzone di latte, abbandonata a me stessa, senza alcun cerimoniale di contorno, come i biscotti pronti, le coccole, le chiacchiere, l’invito a mangiare (mia madre in camera aveva appena partorito Lorella ed era assistita da parenti).
Dopo fui gelosa persino del rapporto privilegiato che aveva instaurato coi nipotini, i figli di Giorgio (l’unico rimasto in paese), e cresciuti praticamente da lei. Non capivo come mai, quand’io andavo a trovarla, potesse trascurarci a loro favore. E solo oggi, che sono anch’io nonna, di nipoti vicini, l’ho assolta.
Michela Apollonia, per tutti Mimina, riuscì a reggere come una roccia, anche quando il destino, dopo appena 9 anni dalla perdita del marito, la privò della figlia a lei più cara, la primogenita Adriana. Strinse i denti, e andò avanti, ma spesso, alla macchina da cucire, mentre realizzava i suoi piccoli capolavori, di cui era orgogliosissima, non ce la faceva a trattenere il groppo dei ricordi e piangeva, silenziosamente, senza però arrestarsi un attimo.
Dunque bella (le foto sono eloquenti), buona (non ci ha mai picchiato, solo tanto rimproverato, né ha mai fatto un torto, ma molti ne ha subiti) e santa. Come chiamarla altrimenti? Vedova a 42 anni, è rimasta sempre tale e monogama totale, rifiutando i vari matrimoni proposti dalle comari che si facevano da intermediarie e qualsiasi altro intrallazzo. Mai lei si sarebbe messo un altro uomo in casa, con i figli che aveva da crescere. Nessun grillo per la testa, mai chiacchierata, tutta casa e famiglia, nessuno spazio neppure per la chiesa (“che Dio avrebbe potuto essere più clemente con lei”).
Unico passatempo, negli anni, la passione dell’antiquariato, ereditata da Adriana, e forse soprattutto un modo per riviverla. Così che, quando le capitava, acquistava oggettistica, o mobili autentici salentini, scoperti in abbandono presso parenti, conoscenti, o i contadini che, a caccia di genuinità, frequentava, per procurarsi direttamente farina, olio, frutta, ortaggi. E ne faceva poi dono a noi, ormai sposati e lontani. A lei devo molti miei mobili, l’enorme armadio quasi da sagrestia, il bellissimo letto in ferro con i medaglioni mai più dipinti, il comò in camera, la vetrinetta in salotto, lo scolapiatti in legno… e anche il sontuoso tavolo ottocentesco su cui ora sto scrivendo al computer.
Per rinnovare il ricordo del mio riconoscente amore, ed anche dei miei fratelli, per una donna esemplare, di vecchi sani principi. Una donna rara.
Morì, con tutti i suoi figli intorno (io le stringevo la mano) il 20 ottobre del 2001; da pochi mesi, aveva compiuto 80 anni.
A presto, mamma.

Modena, Palazzo Bentivoglio, 2019

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