ORIGINE DEL SUPERREALISMO ALLEGORICO
di NADIA CAVALERA
Da anni ormai, circa dieci, in ristretti ambiti della critica letteraria si parla talora, e con parsimonia e circospezione (vedremo perché) di superrealismo allegorico. Cos’è?
È il modo in cui ho battezzato la mia scrittura, a partire da “Vita Novissima” del 1992
(che ne rappresenta il chiaro manifesto) ed è anche la mia produzione di materia in arte; il
mio modo di utilizzare la materia di cui immediatamente dispongo e che normalmente sono
oggetti di risulta, materiali disgregati…dal loro progetto iniziale (molti li ho raccolti
in piccoli cataloghi – fogli in A3 fronte retro – autoprodotti).
Il superrealismo allegorico più che un movimento letterario e artistico è una poetica, la mia poetica, nella quale però credo che molti altri potrebbero riconoscersi, tant’è che, semmai inconsciamente, già la praticano. E’ anche la mia riflessione filosofica in generale, non solo sul tema dell’arte.
E forse e meglio potrei dire che è ..la mia speculazione poetica. Che ha riscosso finora
solo incomprensioni a priori. Pare infatti che nel 2000 ancora non si accetti che possa
essere una donna a fondare, in ambito artistico letterario, un movimento o a nomare una
poetica, ché se di donna deve trattarsi, sembrerebbe la “vulgata”, questa deve essere costruita ex-novo, semmai di nascosto, sempre da un uomo, per sua perenne glorificazione.
Comunque il superrealismo allegorico, mi si riconosca, se non è un movimento ha creato un suo qualche “movimento”.
Ma non nell’accezione comune…
Si direbbe infatti che sia scattata subito, dacché è stato pubblicato “Vita novissima” (il libro che lo rappresenta per eccellenza, e che, per me, rimane ancora insuperato nel suo genere sui generis),
un’operazione congiunta e a vari livelli di ingerenza (non escludo che molte persone siano state
utilizzate senza averne coscienza – certe “sette” non prevedono il pieno coinvolgimento di
tutti) mirante a ridimensionarlo, a delegittimarlo, a privarlo di qualsiasi valenza di testimonianza realistica, storica. E a relegarlo, nelle rarissime recensioni, pur tra qualche sincero elogio, nell’ambito del non sense, dell’artificio retorico, del puro divertissement. E se qualche “sprovveduto” ha avuto l’ardire di ben inquadrarlo subito, nel suo valore realistico è stato evidentemente messo in riga se ha poi ritrattato (j’accuse: persino l’abiura letteraria!) con conseguente collocazione del mio lavoro fortemente civile e politico in qualche categoria di fantasia inconsistente. Stravolgendo sorprendentemente ogni verità di fatto.
Perché? Sarà il mio entusiasmo da perenne neofita, il mio candore nel rigore. Certe mie intuizioni e soluzioni che “bucano” il lettore, risultando così pericolose. Sarà il mio DNA… che pare stimoli straordinariamente anche l’attività predatoria degli altri nei miei riguardi.
Può sembrare un’esagerazione gratuita. Non lo è. Per rimanere all’ultimo quinquennio, quanti altri autori possono “vantare”, come me, di essere stati copiati, in vita, nei titoli dei libri, nei propri pseudonimi, nel nome della propria associazione, persino in quello della propria testata (e non mi si venga a dire che “Bollettario” è un nome allettante, di facile adottabilità).
Non è mancato neppure chi ha avuto la spudotatezza di recensirmi sua sponte “Ecce femina”, ma giusto per metterne in dubbio la mia “maternità” (dopo anni di lavoro che mi era costato!uno dei testi di più difficile gestazione!).
Cosa avrà mai questo superrealismo allegorico che non va? Diciamo ancora che non lo so.
Di certo deve mordere, la sua veritiera lingua innovativa nella carne fare male. E ne sono contenta.
Non c’è niente di più disgustoso di un testo lezioso che lascia tutto come prima e non incide minimamente. Anche se dispiace (non avendo io alcun senso di onnipotenza da foraggiare) vedere che tanta parte di azioni altrui si conchiudano spesso in semplici re-azioni, senza innescare quell’opera di reale rinnovamento alla quale ho sempre aspirato.
Quanto alla scelta del nome era quasi scontata. Precisiamo.
Due sono stati gli autori che ho tenuto maggiormente presenti: Dante e Sanguineti.
L’uno in età giovanissima, per lo più come banco di prova di esercitazioni, (tra un Majakovskij e uno Jacopone da Todi o un Breton e un Cecco Angiolieri), come dicitrice di poesia, prima che tre gravi lutti, nel giro di un anno, mi togliessero qualsiasi volontà di azione e mi imponessero quasi il silenzio.
L’altro da trentenne, dopo il mio ritorno all’impegno della scrittura seppure con pseudonimi, quasi a voler ridimensionare una presenza – la mia – che qualsiasi cosa facesse sembrava, già allora, sempre troppo ingombrante. Questa volta l’approccio all’autore ha comportato una diversa consapevolezza, critica soprattutto, e che mi ha poi rilanciata a Dante, ingenerando un’osmosi simbiotica estremamente vivificante (e già quel titolo “Vita Novissima” ne è prova).
Sono partita dunque soprattutto dalla loro scrittura, l’una capostipite del realismo (in particolare
teologico-politico), l’altra, passata attraverso l’estetica marxista e l’esperienza della neoavanguardia, e orientata al “realismo allegorico”. Sanguineti lo propose esplicitamente (con la variante di “allegorismo realistico”) nelle Tesi di Lecce, come “immagine dialettica orientante e come puntuale discrimine polemico”. Quando rilanciava la lotta al “poetese” e “narratese” dominanti nel mercato, e auspicava “la critica radicale della letterarietà come categoria e come intuizione”.
Negli anni Ottanta, soprattutto verso la fine, leggevo e rileggevo la poesia di questi autori, ad alta voce, la recitavo e incidevo su cassette (qualcuna credo di averla anche inviata a Sanguineti) realizzando talora incastri sorprendenti.
Questa foul immersion servì alla definizione della mia personale proposta poetica, evidente in quel prefisso,”super”, che sta a dire l’adesione al realismo allegorico,sì, con l’impegno però di tensione massima di rappresentazione della realtà perché meglio ne scaturisca una interpretazione sociale fedele e utile ad una sua evoluzione, nel senso progettuale di chi la propone. Senza cedimenti o sconti di sorta, senza alcun compromesso, neppure sentimentale. La poetica di un’avanguardia da riattualizzare, vivificare, tramite un linguaggio stimolatore di conoscenza critica. Un’avanguardia da farne massa.
La mia paura era di scadere nel manierismo dell’opposizione, nella quale mi sembravano impaniati
felicemente troppi autori che avevo avuto occasione di conoscere all’epoca. A me l’opposizione di maniera non interessava , ero e sono convinta che la scrittura, se strumento di una autentica posizione alternativa, di una visione altra, di un progetto globale veramente democratico, possa moltissimo.
Purtroppo stentavo come stento tuttora a trovare corrispondenze piene e significative su questo piano. Troppi corporativismi, fazioni, protagonismi, groppuscoli aperti solo a chi non minaccia la loro pacifica posizione di stallo continuo, di empasse infinita, nell’opposizione apparente tempestata dal turbillon di incontri e impegni infruttuosi. Nel senso almeno che io prediligevo. E come si può verificare in una realtà in piena decomposizione etica. La speranza di conversioni per una piena primavera non è però mai venuta meno.
L’adozione del termine superrealismo rispondeva anche ad un’altra mia esigenza: prendere le distanze da Breton, la cui lezione molto mi aveva intrigato in passato (l’ho anche tradotto)
Infatti basta scorrere alcuni degli aforismi in cui ho disseminato la mia formulazione teorica, per rendersene conto. Giusto ora un accenno.
La superrealtà non corrisponde alla surrealtà bretoniana. Non credo nell’automatismo della scrittura. Non credo nel sogno come luogo di congiungimento di due realtà e inveramento delle nostre aspirazioni. Il sogno per me è solo un momento di elaborazione dei dati registrati durante la veglia, per essere utilizzati ai fini dell’evoluzione della specie. Tant’è che, contrariamente a quanto si crede, è di notte che il nostro cervello lavora maggiormente.
Di fatto, per la mia poetica, potevo limitarmi a parlare solo di “superrealismo”, senonché ho preferito mantenere l’aggettivo “allegorico”, e perché la nozione di allegoria, passata per la lezione di Benjamin (come espressione di una rivolta nei segni che si avvale dell’intelletto critico, frantuma ogni equilibrio della struttura e rifiuta la sacra aura simbolica), mi trovava d’accordo, e perché non volevo che si ingenerassero equivoci con la posizione di Francesco Orestano, che per primo nella sua speculazione filosofica, a partire dagli anni trenta, ha parlato di superrealismo, ma con altre valenze.
Ora, a conclusione, tengo solo a sottolineare che ovviamente la mia scrittura è nata prima della definizione della poetica che qui ne ho dato, e che questa è solo il frutto di una doverosa riflessione a posteriori. Per arricchirla di vigile consapevolezza.
Quali, nello specifico, gli elementi costitutivi ? E’ un compito questo che lascio ai Lettori. Sempre che i miei detrattori me ne lascino qualcuno.
(2003)
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