Antonio L. Verri e l’immedesimazione
di Nadia Cavalera
Animo sempre inquieto, a caccia perenne di equilibrio, di conciliazione, probabilmente «obsesso da due spiriti» come l’Eremita del suo amato Galateo, e di certo come questi «dilaniato dalla vista omologante degli scrittori ed intellettuali del tempo […] prede incondizionate, questi ultimi, di un consenso e […] di una scrittura flebili, da nido di rose»[1].
Innovativo, lui, groviglio di parole strabordanti ogni campo, loro custode sino al sogno di volerle inventariare in un unico libro che abbracci in rappresentazione l’intero mondo. Ché un poeta, è convinto, può essere «povero e oscuro»[2], ma mai «assurdo e sciocco»[3] e solo a lui è concesso nutrire «le meravigliose tempeste della mente o colorate visioni di mondi felici, inesistenti»[4].
Esuberante nella fantasia, come in taluni movimenti degli arti; salutarmente curioso, affamato della vita in ogni sua manifestazione; freneticamente attivo nella programmazione culturale, quasi compulsivo, come chi sapesse di non avere tempo (la còrea lo tallonava); espansivo verso tutti, ma talora con qualche piccata deroga. Guai a non rientrare nei suoi parametri, ché subito sfoderava l’invettiva per trafiggere i suoi avversari o presunti tali, sino ad imitarne il verso, nella voce e nei toni, in caricature improvvisate. Perché Antonio Verri si immedesimava fortemente in ciò che faceva. Vi aderiva totalmente. Mente e corpo.
Ecco questa per me la sua stigmate nella mia memoria. Sarà perché lo conoscevo soprattutto dalle cronache culturali di Quotidiano (che seguivo attentamente dacché avevo iniziato a collaborarvi, nel 1982); sarà perché non ci siamo frequentati molto, giusto il tempo di qualche reading di poesia in comune; alcuni incontri a Lecce per il sindacato scrittori, cui lui aveva aderito prima di me; la condivisione di un viaggio a Roma per il XV Congresso dello stesso sindacato (passò a prendermi nel marzo del 1988 da Brindisi, a capo di un drappello di autori festanti concentrati in due macchine). Poi telefonate, brevi messaggi, ancora un incontro a Roma, ad un altro Congresso, nel 1991 (dove lui ed io risultammo tra i primi 4 non eletti); altri inviti a collaborare, a volte scritti con la sua calligrafia minuta sul bordo delle riviste speditemi, e che io, con la mia pigrizia atavica imbarazzante, aggravata allora da un impegno monopolizzante, rimandavo ad un tempo poi mancato.
Se n’è andato troppo presto, Antonio, anche per me. Quando «Bollettario», la rivista che avevo fondato nel 1990 con Edoardo Sanguineti, era ancora concentrata solo sulle raccolte straniere. Altrimenti, sarebbe stato, di sicuro, tra le sue fila. Come lo era stato per «Gheminga», dove è presente nel n.2 – agosto 1988 – con la poesia “La madre”. Lui così affollatamente solo e isolato, nonostante i molteplici tentativi di costruire una rete stabile sempre più ampia nella comunicazione poetica, e così d’avanguardia (della mia avanguardia), nella volontà di cambiamento del reale, non fittizio, per il quale si è prodigato fino alla fine. Un’avanguardia senza manifesti o gruppi sterili, autocelebrantisi fino alla consunzione dei loro giorni terreni, senza mai riuscire a rispondere all’unica domanda di senso. Dove sono i passi avanti, nella ricaduta sociale? Inesistenti. E allora nessun nastrino di compiacimento. Meglio denunciare la sconfitta plateale, confermare il coitus interruptus di tutte le operazioni. E tacere.
Mi inondava Antonio Verri con le sue riviste, dal “Pensionante de’ Saraceni” a “On board”, “Ballyhoo”, “Titivillus”, il rivoluzionario “Quotidiano dei poeti” (di questo – che avevo avuto modo già di conoscere – a Roma, per il XVI Congresso SNL, mi regalò la serie completa, che io purtroppo dimenticai su un tavolo, e che non sono più riuscita a recuperare). Mi ha mandato anche libretti delle collane che curava. Ma non i suoi libri.
Unica eccezione il dramma: “Il fabbricante di armonia. Antonio Galateo” (sul grande umanista del Quattrocento, originario del mio paese, Galatone). Io che già allora mi piccavo d’essere la Galatea (avevo già firmato qualche lavoro con questo nome), ne fui felice e lo lessi con avidità. Me l’aveva spedito a Brindisi nel 1986 con questa dedica: “Cara Nadia, ci siamo finalmente. Fatti viva e…buona lettura”. La firma è “antonioverri” in minuscolo e tutto attaccato. Non aveva ancora deciso di utilizzare anche il suo secondo nome “Leonardo”, nell’abbreviazione “L.”, un vezzo “strano” degli ultimi mesi.
E la rilettura oggi di questo singolare lavoro, che gioca su matriosche di specchi, per la distanza necessaria ad acquisire «la coscienza viva»[5] di se stesso, ha confermato in me l’originaria impressione: Antonio Verri è energia pura tesa ad assorbire e permeare di sé ogni realtà circostante, in primis gli autori con cui si sente in sintonia.
In essi ha l’impellente esigenza di ritrovarsi, ad essi si aggrappa per dilatarsi, e nell’ingrandimento meglio comprendersi, e far comprendere anche le sue ragioni.
Specie in un momento di profonda crisi (si intuisce facilmente dal testo in questione), che se lo lascia prostrato, non gli toglie la forza di continuare, nella rafforzata consapevolezza che «la conoscenza, la completezza delle cose, il giusto equilibrio si acquistano col sapere, con la scienza e non rincorrendo sogni o avventurandosi nel mare dell’ignoto delle cabale»[6] e che la vita vale la pena d’essere vissuta solo se è proiettata alla costruzione dell’armonia. Un termine questo che ricorre tantissime volte nel libro (già nel titolo), risultando il bisogno primario degli attori principali del dramma e soprattutto del suo autore.
Che, proprio dopo questo lavoro, incrementerà al massimo il suo impegno, interrotto bruscamente una notte del maggio 1993.
Io l’avevo sentito un’ultima volta, nel 1992, dopo l’uscita del mio poemetto “Vita novissima” (dove è protagonista una fantomatica lulù senza una precisa identità sessuale). Gli era piaciuto: «lulù è un personaggio straordinario», mi disse per telefono. «E allora perché non ne scrivi? », incalzai, dopo una prima sorpresa (non sono mai stata un soggetto che ispira facili espansioni critiche). Sorrise scompostamente, ma non aggiunse altro. Si soffermò invece sulla collaborazione che mi chiedeva. Poi più nulla.
Solo alla sua morte scoprii la comparsa di quella “L.”… Una decisione, mi informò erroneamente qualcuno, di nemmeno un anno. Più o meno il periodo del nostro ultimo contatto telefonico. La coincidenza subito mi fece balenare alla mente l’idea che, al di là di altre plausibili motivazioni, quella potesse essere la sua originale risposta alla mia richiesta di attenzione. Una sorta di condivisione tatuata nel corpo della sua identità. La prova tangibile di un’altra pervasiva elezione. Lui, già Stefan, già Antonio Galateo, si specchiava e crogiolava anche nel linguistico nido di rovi della mia complessa lulù. Con l’ammiccamento sornione di una “L.” appuntata lì, tra il nome e il cognome…Antonio Lulù Verri.
Mi è piaciuto pensarlo a lungo, fino a che riscontri oggettivi mi hanno fatto propendere per una…
prefigurazione d’immedesimazione. Si rimane sempre poeti…
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