ANTONINO CONTILIANO
Ho appreso della morte di Gianni Toti: e-mail in ricezione, letture in rendez-vous su blog. E vi scrivo non tempestivamente. E’ la mia difficoltà, l’imbarazzo di scrivere qualche parola sconveniente, il solito dispiacere. E’ il rischio, solo pensato, di una allitterazione comica, ma fuori debito, tra chi prende a calci la parola, Totti, e lui, il Toti, il Mida plenipotenziario del sistema simbolico volto ad usum poietico, e multimediale. E’ il timore dell’ammirazione per la sua “polipoesia”, l’esuberanza della sua inimitabile ‘jaquerie’ linguistica, la propensione squartatrice e creativo-ricompositivo semantica del parallelo jacques-derridiano, l’insonnia creola e neologismica, mai gratuita o pratica insignificante, del suo fare poesia, cui nessun segno e/o strumento era arma impropria…, la sua lezione di irriducibilità della poesia a forme e standard mummificati e il suo eccesso di danza e gioia vitale, nonostante la sua morte, la morte, come la vita e il suo impegno a non demordere punto contro lo stupidario umano-borghese imperante la ribalta neoliberista…, che finora ha tenuto e trattenuto il mio respiro in disparte dalla coralità del lutto. Amo il suo lascito: il riso della poesia che sbraca e denuda il re. Credo non abbia fatto altro, e per questo non lo piango. La sua eredità è un bene, e non una perdita. Non gli si addice il pianto; né credo l’avrebbe gradito, specie da uno sconosciuto lettore. L’ho solo intravisto una volta a Roma, seduto in una piazza e in prima fila, dove degli amici, che presentavano Odradrek 2004, lo salutavano. Avrei voluto stringergli la mano e presentarmi, solo se l’indecisione e l’impaccio disarmanti me l’avessero permesso. Mi ha trattenuto la sua singolarità, unica in quella sua cornice di spettatore e attore s-piegato dall’abbraccio della sedia che lo raccoglieva e lo lanciava. Se la “desolazione” della morte non ha altra “consolazione” che l’ultimo saluto, salute a te, allora, Gianni e poeta, e grazie alla vitalità poetica che lasci lascito.
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