Blog — 12 Gennaio 2007

GIUSEPPE PANELLA
UNA ROSA PER GIANNI TOTI
«Dunque anche al di là delle VideoPoemOpera totiane? si capisce. Non si capiva, forse? Filari di schermi di ogni misura con immagini musicali, verbali, ballettistiche, etc o musiche visuali, verbali, immaginali etc., secondo la vista del punto, gli scambi, le mutazioni, gli sviluppi della spazialità pluridimensionale, il videocubismo, le nuove profondità mobili, le mises-en-abymes, i simultaneismi finalmente possibili e poesibili, le voci dei versi, delle strofe, dell’epico-lirica dilatata, i persistenti echi oltre la fine del transpoema o della supercomposizione, dell’oltracconto, la transnarrazione… Quandi modi, modelli mentali, modulazioni metamorfòtiche! Infatti, “infatti”, come si dice, ahinoi, sempre più spesso. Oltre questi “infatti”. “Nei fatti”, nelle “fattografie” post-futuriane: sì, la “vita colta sul fatto”, ma tutta, tutta la vita ri-presentabile oltre le logorate pseudo rappresentazioni. Raffuturazioni, diciamo?
Ma che tipo di poesia? che tipo di musica? Che tipo di immagini? Uffano ormai, queste riproposizioni di domande (regole, moduli, modalità…). Immagini verbali e musicali e danzate e scolpite, etceterali, sempre ormai fuse, non con-fuse, ri-fuse semmai.
Del resto queste non sono mica prescrizioni, ma appena appena descrizioni di nuove arti nascenti, di nuove epistemologie (con relative “rotture”), linguaggerie inedite e inaudite e inviste, inimmaginate (eh, sì! l’inimmaginario scollettivo!). E il “senso” come “direzione” della “freccia” irreversibile del tempo, la storia degli “attrattori” sempre più “strani”, delle ri-evoluzioni (rievoluzionarie, innaturalmente!). In somma, non in sottrazione!
Utopie, le solite… Certo, ucronìe anzi, e ucronotopìe, upoetìe, utechnìe… Beh, questa è carta, questi sono vecchi segni, sognificanti e sognificati da insonnie finibimillenarie (o ventimiliardennarie). Il fatt’è che siamo sempre alla fine. Del principio. L’artistificazione del mondo, la Grande Poesificazione, è appena cominciata!…» (Gianni Toti)

La prima volta che ho incontrato Gianni Toti è stato a Genova non mi ricordo più quanti anni fa (almeno venti, comunque, ma temo di più).
Ero andato insieme agli amici del vecchio Cineclub “Arsenale”di Pisa (che c’è ancora, grazie a Dio!) a vedere una grande mostra sul Giappone voluta dal Comune per incrementare i rapporti commerciali di scambio con quel paese orientale e marittimo quanti altri mai e in cui era presente come chicca per i cinéphiles una splendida rassegna dei video di Norman McLaren (una scelta coraggiosa per l’epoca vista la tematica omosessuale che alcuni di essi comportavano).
Toti mi sembrò un po’ inquisitorio, all’inizio: volle sapere che cosa avevo scritto fino ad allora e si disse scettico sul fatto che io avessi letto un suo libro (il romanzo – ? – Il padrone assoluto da non molto uscito presso Feltrinelli).
In realtà era vero che l’avevo fatto e, seppure non ci avessi capito poi molto di quello che avevo letto, ne avevo ricavato un’impressione di grande coraggio e libertà espressiva e potenzialità poetica e capacità performativa.
Lui di persona lo avevo visto solo in un film di qualche anno prima (Quanto è bello lu moriri acciso, del 1975, diretto da Ennio Lorenzini in cui Toti interpretava la parte di un possidente meridionale che in biroccio tentava di unirsi a Pisacane ma che veniva circondato da un gruppo di contadini che lo linciavano – spero però di ricordare bene) ma era abbastanza somigliante a quel che mi ricordavo. Dopo quella volta l’ho rivisto spesso a Pisa in occasione di OndaVideo, una manifestazione allora molto significativa nell’ambito artistico voluta da Sandra Lischi in collaborazione con il Comune e sempre con il Cineclub “Arsenale” dove nell’anno in cui io mi occupai dell’organizzazione dell’evento sub specie philosophiae il tema era quello della Metropioli. Tra i relatori non poteva non esserci Toti (insieme a personaggi come Mario Perniola, Antonio Caronia, Sandro Bernardi ecc.) che spiazzò tutti con un intervento fortemente provocatorio (di quelli che solo lui sapeva fare) dicendo che contrariamente alla vulgata presente la cosa migliore da fare dovendo riferire sul destino odierno della Metropoli era di dimenticarsi dei vari Simmel, Benjamin, Baudrillard ecc. invece di continuare a citarli come continue e ormai compromesse pezze d’appoggio per i propri discorsi di sempre.
In quell’occasione, invece, citò come esemplare la lezione di uno dei grandi poeti russi dell’avanguardia futurista, Velemir Chlebnikov, che poi sarebbe riapparso, anni dopo, nella macchina video-poematica di PoemOpera SqueeZange Záum – dove certamente alita il suo fantasma rivoluzionario e follemente divaricatore delle istanze della poesia.
La sua iconoclastia mi piacque e gli chiesi il suo indirizzo romano dove gli scrissi più volte (ed ora mi dispiace molto che certe sue lettere bellissime di risposta siano andate perse nel mio ultimo trasloco)…
Progettammo una traduzione che purtroppo poi non si fece più (si trattava di un romanzo politico, satirico e a chiave, Sister Peg, misteriosamente ritrovato in quel periodo e poi attribuito pare erroneamente a David Hume e che io avrei dovuto tradurre per “Carte Segrete” – iniziativa che non andò mai in porto sia perché la rivista era già tutta immersa nelle profondità delle incertezze economiche da cui non è mai più uscita sia perché il libro lo pubblicò poi Sellerio in una brutta traduzione che suscitò l’interesse di pochi).
E d’altronde in quello stesso periodo Toti maturò il suo interesse per i video d’arte (ne girò anche uno “promozionale” per l’Università di Pisa dal titolo Terminale intelligenza) fino a trasformare questo suo impegno fino ad allora soltanto parziale in un’ottica di coinvolgimento totale con esso.
La “poetronica” – cui talvolta Toti accennava, come sempre, tra il serio e il faceto – era in realtà il suo tentativo più riuscito di usare il mezzo elettronico e il video per trasformare in poesie-immagini
Quelle operazioni di dislocazione (e di distruzione) del linguaggio quotidiano che aveva realizzato nei suoi film su pellicola e nei suoi testi poetici (e narrativi – come era accaduto nel caso di Il padrone assoluto del 1977).
La videoarte (nel cui ambito anche le ricerche di un altro pioniere del mezzo, Enzo Minarelli, ricordano molto l’espressività tecnologica di Toti) – e in maniera più specifica – la capacità di connettersi e di utilizzare le possibilità offerte dall’elaborazione grafica computerizzata e la sua possibilità di proiezione verso i mondi virtuali che possono essere costruiti nel mondo della telematica oltre il reale del fenomeno naturale.
Toti non usa soltanto i mezzi messigli a disposizione dalla cibernetica e li assembla ma fonde insieme poesia e cinema elettronico; inserisce nella propria scrittura parole sciolte e neologismi che combinano lingue di ogni paese in un idioma senza frontiere, comprensibile senza bisogno di traduzioni.
E riesce a farlo proprio perché mantiene nei suoi video-poemi un andamento epico, tenendo fermo alla necessità di operare una sintesi dei tempi nei quali vive e si muove, anche quando ciò sembrerebbe impossibile, tanto essi trovano sostanza soltanto nell’effimero, nell’occasionale, nel quotidiano transitorio e senza storia, quanto più contagiati dal transeunte scivolare del tempo risultano i mezzi elettronici e le opere costruite a partire da essi.
Come egli stesso ha scritto:

«Un poème est une sorte de machine… scriveva Valery. Il film pure, è una specie di macchina. E il video, dentro o fuori il monitor, dovrebbe pur essere già diventato la più speciale specie di macchina mentale. I videopoeti, dentro e fuori i monitors e le loro stesse espansioni articolate e disarticolanti negli spazi-ambienti frequentanti liberamente dagli spettatori interagenti “finitori”del semilavorato artistico, ricercano/sperimentano proprio questi cammini verso il caos e ritorno, nella provocazione reciproca della loro linguisteria e dei computer più o meno “dedicati” a contraddirsi, delle combinatorie macchiniche così umanamente “corrotte” proprio perché sfuggano alle loro determinazioni rappresentazionistiche. E’ “l’attrazione strana” della poiesis, della tèchne, della musa intesa come arte-scienza. I videopoeti sono le ultime figure degli shelleyani e “prometeici” (avan-vedenti) “legislatori irriconosciuti del mondo”, gli specchi di quelle ombre gigantesche che il futuro proietta sul presente, le visioni che esprimono ciò che non intendono, non sentono ciò che ispirano, commuovono ma non sono commosse; le visioni liberate, insomma, le visioni in quanto tali, che non avanguardano ma ormai avan-vedono…»
(Gianni Toti, Immaginificanti e immaginificati. Pensiero elettronico e poematica. Appunti-en poète per una poeteorica dei modelli imagopoietici, in S. Lischi – R. Albertini, Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, Pisa, Ets, 1988).

In questa sua modificazione sostanziale del procedimento poetico-creativo che lo portava a mutuare la storicità insita nelle avanguardie e la trasformava in ricerca di sensori per l’antropologia del futuro risiede gran parte del merito teorico-poetico di Gianni Toti. O almeno – a mio avviso – quello che di lui resterà…
Per questo motivo anche Gianni Toti (come la Emily di un famoso racconto di Faulkner del 1930) merita di ricevere la rosa rossa che ne consacra il lavoro già fatto e soprattutto la sua fecondità per il futuro.

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