Prose Recensioni — 07 Novembre 2021

“Il Remo di Ulisse”: Luigi Ballerini, cacciatore di conoscenz

di Nadia Cavalera

Luigi Ballerini, già docente di letteratura italiana moderna e contemporanea negli Usa dal 1969 (tra Los Angeles e New York soprattutto); scrittore sempre assetato di conoscenza; fine conoscitore delle avanguardie storiche, della neoavanguardia, dell’imagismo anglosassone, della beat generation; traduttore anche “reverso” (singolare la sua traduzione dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, per lo sforzo – dopo le prove di Pivano e Pavese – di «tradurre dall’inglese in italiano con l’italiano»); studioso d’arte (culinaria in primis), animatore di molteplici iniziative, curatore di antologie nei due mondi, è innanzitutto un grande poeta in lingua e in dialetto milanese.
Vicino particolarmente a Elio Pagliarani e Alfredo Giuliani; sobrio osservatore «vicinante» (come ama definirsi, per la «volontà d’esserci») di Adriano Spatola, è interprete d’una avanguardia tutta sua, personale, originale (con sviluppi neo-epici), una linea direbbe qualcuno lombarda, fatta d’impegno civile real/espressionistico e di fede nella funzione sociale della poesia. Imperniata nella continua indagine sul linguaggio e i suoi segni per strapparne puzzle di senso.
Convinto com’è che la distinzione tra forma e contenuto non esista più, che linguaggio sia il contenuto di una poesia che emerge dall’ascolto delle parole con cui è fatta. E le sue parole hanno l’origine più disparata. Sono un pastiche di lingue straniere d’ogni tempo (dunque morte e vive), d’ogni luogo (dialettali) e modo (frasi idiomatiche, linguaggi settoriali), che tra dotti riferimenti e ascendenze letterarie (da Dante a Ezra Pound a Wallace Stevens, da Guido Cavalcanti a Shakespeare, Gertrude Stein, Pagliarani, Alfredo Giuliani) non disdegnano le canzoni popolari, le battute di varietà e avanspettacolo, «la spazzatura di altre poesie». Purché la poesia si rinnovi e la comunicazione si desclerotizzi.
È questo l’obiettivo principale dell’ansia irrefrenabile che lo anima, sempre più consapevolmente, sin dai primissimi esordi (le sei poesie di Inno alla terra pubblicate, nel 1960, in «Inventario»). Ne è testimonianza il primo libretto eccetera.E,che s’imponegià visivamente per l’andamento del verso fluttuante, spezzato, rientrante, ondivago, talora si direbbe in ginocchio, alla ricerca di una sua identità precisa, che fosse il superamento del già dato e si aprisse a orizzonti nuovi, ad una poesia attiva, che comunicasse l’ignoto. Non nel senso simbolista di assoluto, ma nel senso di una realtà di difficile percepibilità, eppure esistente. A caccia di una realtà molteplice la cui individuazione è l’unica appetibile. Per essa si impone per lui la ricognizione, sin dagli inizi, della tradizione lirica italiana. E Che figurato muore (1988), è il titolo della sua seconda raccolta, che con la forma graficamente compatta, la coesione e complessità della lingua nella tecnica dell’accumulo, nel ricorso alla narratività e alla polifonia, le immagini del dramma della guerra volgenti al neo-epico, rappresenta in nuce tutta la poesia balleriniana. Costituisce il centro da cui si dirameranno gli sviluppi successivi, da Che oror l’orient a Il terzo gode, Stracci shakespeariani, Uscita senza strada, Uno monta la luna, Cefalonia, Se il Tempo è matto.
Il tutto sempre all’insegna programmatica che la conoscenza è il fine assoluto della poesia e di ogni uomo.
Ballerini trova conferma di questo assunto nel passo dell’Odissea dove Tiresia incontra Ulisse e gli predice il suo futuro: un secondo viaggio con un remo in spalla, in terre interne lontane dal mare, dove non si conosce il sale e dove un viandante, riconducendo l’ignoto al suo noto, rifacendosi cioè alle sue esperienze, scambierà il suo remo per un ventilabro.

Solo quando questo fraintendimento avverrà, quando il conoscere non coinciderà col riconoscere, quando attraverso il possibile esperibile si raggiungerà una zona vergine, un luogo d’induzione dell’innocenza, e non si ridurrà la propria produzione di senso alle coordinate del riferimento funzionale, solo allora Ulisse potrà ritenersi soddisfatto, piantare il remo in terra e tornare a casa a onorare gli dei e vivere una vecchiaia felice conclusa da una morte regolamentare, secondo i vecchi schemi.
Che se la poesia è imitazione nel senso di ricerca, comprensione, conoscenza, la morte è l’unico oggetto che la poesia non può imitare. Davanti ad essa tutto si ferma. Anche la conoscenza.
«Oggetto ultimo e inimitabile dell’imitazione poetica è la morte». Così, nel fondamentale “Che figurato muore”, inizia Il remo di Ulisse, un capitoletto in prosa talmente illuminante che ha dato il titolo ad un seminario su Luigi Ballerini (tenutosi  a Pescara, il 15 maggio 2019, nel Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne dell’Università «G. d’Annunzio») e oggi è il titolo della preziosa monografia (Marsilio Editori, 2021), curata da Ugo Perolino, che affronta diacronicamente, nei suoi vari stadi tematici e stilistici, e col ricorso a valenti critici (tra cui Beppe Cavatorta, Giulio Ferroni, Francesco Muzzioli, Federica Santini, Cecilia Bello Minciacchi, Giorgio Patrizi) tutta l’opera del funambolesco poeta.
Il libro è dotato anche del reportage fotografico, a cura di Charles H. Traub, di un viaggio fatto insieme nell’Illinois, e in particolare a Springfield, e a Lewistown, sulle tracce rispettivamente del futuro presidente Abraham Lincoln e del poeta Edgar Lee Masters, autore, idolatrato un tempo, dell’Antologia di Spoon River.
A chiusura un’antologia essenziale, ma utile per cogliere le varie sorprendenti sfaccettature stilistiche di Luigi Ballerini. Un autore dalla scrittura mutante e mutevole, un vero cacciatore e minatore, al tempo stesso, del senso, per strapparne conoscenza. Suo remo: la poesia.
Che «Morire è […] quando il senso cessa di girarsi (e rigirarsi) e si fissa dentro il confine esclusivo della sua letteralità» (da Congedo).

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