Blog — 05 Gennaio 2007

RAFFAELE IBBA
Su Saddam nulla da dire: è stato ucciso perchè non fosse processato
davvero per le stragi che ha fatto, con la complicità di chi ha
favorito la sua salita al potere.
Ma è la pena di morte che va abolita, ovunque. Il movimento Nessuno
tocchi Caino e Amnesty international in questo sono molto seri e
attenti.

FEDERICO SANGUINETI
quello che tu dici è giusto, ma trovo generica e fuorviante un’affermazione come “qualsiasi cosa abbia fatto”.
Io sottolineerei il fatto che i crimini per il quale Saddam è stato condannato sarebbero stati commessi quando Saddam era FEDELE ALLEATO DEGLI USA E STIMATISSIMO AMICO DELL’OCCIDENTE, ITALIA COMPRESA, ANZI CONSIDERATO PORTAVOCE DEI VALORI NEOLIBERISTI.

MARIA GRAZIA CALANDRONE
sottoscrivo parola per parola l’indignazione assoluta e profondissima nei confronti della primitiva vendetta travestita da giustizia che si compie con la pena di morte e nei confronti della sua morbosa messa in onda, sotto gli occhi nostri che mai l’avremmo sottoscritta e sotto gli occhi dei nostri figli ai quali siamo ormai costretti a oscurare i telegiornali per far credere loro che il mondo grande sia generoso come il loro piccolo universo

GABRIELE POLO
La sorte del tiranno (Il manifesto, 5 gennaio 2007)
E’ giusto uccidere un tiranno? Posta in modo così secco, la domanda – riemersa in improbabili paragoni tra l’impiccagione di Saddam Hussein e la fucilazione di Benito Mussolini – non può che avere una risposta altrettanto secca: sì, è giusto. Almeno finché il tiranno è in sella, finché la sua morte è il passaggio obbligato verso la libertà, finché non c’è altro mezzo che il tirannicidio. E sono questi «se» a fare la differenza. La differenza che chiama in causa il contesto storico con cui il giudizio etico qualche rapporto lo deve pure avere. Altrimenti ogni cosa diventa uguale al suo contrario, e tutto si annulla.
Per questo non sono paragonabili – né accostabili – l’impiccagione di Baghdad e la fucilazione di Giulino di Mezzegra. Bene ha fatto Marco D’Eramo, tre giorni fa da queste stesse colonne, a segnare la differenza tra un’esecuzione dettata dallo spirito di vendetta al termine di un processo farsesco (istruito solo per dare un paravento giuridico a uno stato privo di alcun diritto) e un atto di guerra commesso negli ultimi giorni di un conflitto. Ma è perlomeno discutibile decontestualizzare quella fucilazione fissandola in un semplificatorio aggettivo: «spregevole». Qui entrano in gioco i giudizi sulla nostra storia e l’eterno conflitto tra politica ed etica, tra fini e mezzi.
Uccidere è sempre un atto terribile. Di più, uccidere un prigioniero è una diminuzione di se stessi, un suicidio della propria umanità. Ed è per questo che gli stati affidano a un «professionista» della morte – a un boia – l’esecuzione delle condanne, per rendere astratto, attraverso un «lavoro», l’atto più disumano del vivere. Ed è per questo che aborriamo l’omicidio e consideriamo una barbarie la pena di morte: uccidendo il colpevole moriamo un po’ tutti, ancor di più quando quel gesto viene dipinto come un atto di giustizia fatto in nome di una comunità, per legge.
Una comunità democratica, civile, dovrebbe avere la forza di rappresentare la volontà popolare senza ricorrere alla morte, iniziando col bandirne la forma più terribile: la guerra, che cancella democrazia e libertà. Ed essere talmente salda nelle proprie ragioni (e istituzioni, e leggi) da «perdonare» il colpevole «punendolo» con la possibilità di ripensare il suo gesto. Ma l’Italia democratica dell’aprile 1945 non era in queste condizioni. Non esisteva nemmeno, se non nelle intenzioni. Quando Mussolini venne fucilato da un gruppo di comunisti la guerra era ancora in corso. Ed era una guerra civile in un paese diviso; con truppe tedesche ancora presenti sul territorio nazionale – che mentre si ritiravano continuavano a seminar strage – e migliaia di fascisti ancora in armi; con i comandi alleati pronti a prendersi Mussolini per tenere in ostaggio il futuro politico dell’Italia. Uccidere il tiranno appena catturato non fu una vendetta spregevole, in quel contesto fu necessario. E persino giusto, per quanto possa essere giusta una fucilazione. Che avvenne sommariamente, su indicazione di una parte del gruppo dirigente del «Comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia». SEGUE A PAGINA 2 Ne fece le spese anche Claretta Petacci, la cui uccisione non aveva – questa sì- alcun senso e fu del tutto gratuita. Poi ci fu lo scempio di piazzale Loreto: corpi dati in pasto alla furia plebea, per esibire l’avvenuta rottura con il regime passato e «sanare» il dolore per un’analogo scempio ai danni dei partigiani commesso un anno prima sullo stesso luogo.
I giudizi morali – da soli – non ci aiutano a capire e giudicare. Benito Mussolini era colpevole di mille delitti, politici ed umani. Su questo non c’era discussione allora e non c’è ora. La divisione (più oggi che allora) è sulla giustezza della pena inflitta. Ma questa non può astrarsi dal contesto in cui avvenne. A sessant’anni di distanza ognuno può dispiacersi per la morte di un uomo, ma nessuno può dimenticare chi fu quell’uomo e perché fu ucciso. Non perché quella morte avrebbe potuto sanare le ferite che quella vita aveva inferto, ma perché diventava un passaggio obbligato per un paese completamente diverso (o almeno molto diverso) da quello conosciuto fino ad allora. Anche qui contano le differenze: la morte di Mussolini serviva ad aprire la strada alla democrazia, a un’Italia che avrebbe dovuto (non sempre l’ha fatto) ripudiare le guerre, a cancellare (ad esempio) la pena di morte dalla sua Costituzione. Quella di Saddam (prigioniero inerme da tre anni) serve solo a dividere ulteriormente il suo ex paese per continuare la guerra e raccogliere ancora morte (da una parte e dall’altra). E’ la stessa differenza che passava tra le pallottole dei partigiani e quelle dei repubblichini di Salò: l’uccidere con la morte nel cuore oppure farlo perché la morte è un «progetto»(o, perfino, «bella»). Certo, ci potevano essere differenze anche qui, dentro uno stesso campo. Non c’erano santi da una parte e demoni dall’altra. Ma c’erano due culture politiche, due divergenti visioni del mondo e se oggi possiamo discutere su tutto questo e considerare un omicidio un atto comunque e sempre tremendo (anche quello ai danni di un tiranno) è perché ha vinto la nostra parte.
Sui volti ritratti in fotografie ormai sbiadite di partigiani (i compagni dei fucilatori di Mussolini) che sfilano nelle città italiane subito dopo la Liberazione possiamo ancora leggere tutt’altre cose da un tronfio e retorico militarismo, dalla felicità del combattere; semmai gioia per aver concluso un’opera, ma carica dei pesi di chi ha ucciso per costrizione, per non uccidere più. Sguardi dell’anima che nessuno può trovare nelle buie immagini delle camicie nere raccolte attorno al tiranno declinate nel suo ultimo comizio al teatro Lirico di Milano, qualche settimana prima della sua fucilazione. Non è una differenza di poco conto: va colta perché anch’essa spiega le ragioni e annuncia ciò che sarebbe venuto dopo. Se vogliamo capirlo e difenderlo.
(gabriele polo)

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